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Dall’eredità andina al registro fantastico

Dall’eredità andina al registro fantasticoJosé Sabogal, La recluta, 1926

Antologie Due esperimementi narrativi paralleli: un breve romanzo storico, pieno di parole in quechua, e un secondo testo giocato sulle note dell’avanguardia: «Guerra verticale», da Arkadia

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 28 aprile 2019

Strano destino quello di César Vallejo: enormi difficoltà per farsi riconoscere in vita, quando pubblicò solo un centinaio di poesie, poi una fama in rapida ascesa, già avviata con i postumi Poemas Humanos e via via sempre più larga. Non fu tanto l’incomprensione dei contemporanei a causarne la sorte, quanto il sistematico sperimentalismo della sua scrittura, i libri concepiti come laboratori sempre aperti, la lingua sottoposta a tensioni estreme, come in Trilce (del 1922), il libro più radicale della poesia del Novecento in lingua spagnola.

Anche la prosa mostra una serie di tentativi nelle direzioni più diverse, sospesi tra la ricerca di un’estetica soggettiva e l’inseguimento di un’estetica rivoluzionaria, entrambe sorrette da un grande rigore etico. Se si includono i libri di viaggi e le cronache, la produzione in prosa di Vallejo occupa forse anche più pagine di quella poetica, ma le traduzioni e gli studi critici l’hanno lasciata molto più in ombra, nonostante la sua rilevanza: lo dimostrano i due testi proposti nel volume della coraggiosa editrice sarda Arkadia, Guerra verticale (a cura di Luigi Marfé, pp.126, € 14,00), due esperimenti paralleli, sfide diverse ma non del tutto separate.

Il primo è un breve romanzo storico – quasi un abbozzo – sul quale Vallejo tornò più volte, senza concluderlo, e in cui racconta l’epoca di Tupac Yupanqui, monarca inca del Peru prima della Conquista. Scelto il tema, l’autore si chiede se sia possibile raccontare il mondo incaico prima dell’arrivo degli spagnoli, quando le uniche fonti disponibili sono quelle dei conquistatori o degli storici meticci tardivi; ma la domanda successiva sarà se davvero sia possibile colmare la distanza culturale che divide gli eredi andini dei popoli originari dai bianchi e dai meticci del Peru. In quegli anni si ponevano la stessa domanda José Carlos Mariátegui, José María Arguedas, Gamaliel Churata, senza trovare una risposta definitiva. Vallejo si cimenta dunque in una narrazione piena di parole in quechua, lunghe liste iterative alternate a descrizioni liriche, imita antichi modi narrativi, ma lascia l’impresa a metà per consegnarci un racconto che proprio in questa sfida alla storia conserva il suo fascino.

Il secondo testo si gioca, invece, tutto sulle note dell’avanguardia narrativa: composto nello stesso periodo di Trilce, presenta non poche convergenze con quel libro fondamentale. Il titolo, Scale, nella prima edizione era seguito dall’aggettivo melografiadas, che ne rivelava la natura di esperimento musical-narrativo. L’incontro tra le due forme d’arte, vecchio sogno ottocentesco, si realizza qui grazie a un lavoro sulla lingua di grande complessità e il titolo sembra proporre uno spazio di incontro intorno alla materia della scrittura, in cui l’allusione al linguaggio musicale fornisce la simultaneità che articola l’esperienza del soggetto narrante su piani alternativi a quelli meramente lineari.

Come le scale musicali, i testi presentano una notevole graduazione dei toni e cercano di captare sulla carta tutte le sfumature di uno strumento, per riprodurne le più diverse espressività. Sono testi che appartengono, dunque, alla frontiera tra i generi letterari, esplorata non solo con gli esperimenti formali delle avanguardie, ma anche grazie alle trasformazioni del genere fantastico, dagli inizi dell’Ottocento fino agli anni in cui scrive Vallejo.

Due le parti, apparentemente non collegate: la prima, intitolata Cuneiformi, è una successione di quadri statici in cui l’io narrante intende trasmettere la sua esperienza del carcere, cercando di renderla più oggettiva possibile: marcato dalle «quattro pareti della cella», prova a trasformarla in uno spazio che oscilla tra le espansioni e le contrazioni dell’Io.

I sei racconti della seconda sezione hanno invece una architettura narrativa più lineare, dove l’Io narrante si presenta alternativamente come testimone e come protagonista, mentre la scissione dell’Io si accorda a volte al registro fantastico, altre volte evoca personalità malate o segnate dalla follia. Il mondo di queste pagine appare, allora, come un teatro di marionette senza più un centro ordinatore, in cui dominano i temi della visione, del doppio e della follia: vi si racconta l’incontro allucinato con la madre morta, la disavventura di un uomo che crede di amare una donna, (ma poi risulterà che le donne sono due) il timore paranoico di un carcerato di morire avvelenato, la triste storia di un platonico innamorato, morto fulminato dopo aver baciato l’amata per una sola volta, l’ossessione zoomorfica degli abitanti di Cayna che si trasformano in scimmie, e al termine, l’alienazione ludopatica del cinese protagonista dell’ultimo straordinario racconto, che si gioca la vita in una partita a dadi dove la coppia d’assi con cui dovrebbe vincere segna però anche la sua condanna a morte, in un finale in crescendo che il Vallejo poeta aveva già prefigurato nei «dadi eterni» di uno dei suoi memorabili poemi giovanili.

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