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Dalle lotte operaie fallite alla folla solitaria di Terni

Dalle lotte operaie fallite alla folla solitaria di Terni

Umbria Non sarà un caso se quindici anni di lotte cominciate con l’epico sciopero generale del 2004 in questa città storicamente rossa si concludono con la destra al 57% e la Lega vicina al 40% e la fabbrica sempre più ridimensionata e isolata

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 30 ottobre 2019

Nel 1970, nel pieno del movimento di lotta per la casa, intervistai un operaio che aveva fatto almeno cinque occupazioni, e ogni volta che lo avevano cacciato era tornato insieme agli altri a occupare. Una storia di dignità, combattività, coscienza. Poi, a microfono spento, aggiunse: ho una figlia brava a scuola ma non ho i mezzi per farla studiare; conosci qualcuno per farla entrare in un collegio o qualcosa del genere?

Non conoscevo nessuno che potesse aiutarlo, non potevo fare niente per loro, e non so se poi lui ha auto la casa e lei un diploma. Ma questa storia non ha smesso di tornarmi in mente e di farmi capire qualche cosa dell’abisso in cui siamo precipitati. Per farla breve: per migliorare la propria vita e quella dei suoi cari, l’operaio con cui parlavo stava, per così dire, puntando su due ruote.

Da un lato, la lotta collettiva, la solidarietà, il cambiamento dei rapporti di potere. Dall’altro, la soluzione individuale attraverso il più simbolico degli strumenti della subalternità e della dipendenza dai potenti, la raccomandazione. Se non ce la faceva insieme con tutti gli altri, non restava che provare a farcela da solo.
Saltiamo di mezzo secolo, a Terni, Umbria, 2014. Un durissimo sciopero di tre mesi contro i licenziamenti alle acciaierie ThyssenKrupp si risolve infine quando quattrocento operai, uno per uno, accettano di dimettersi “volontariamente” in cambio di una buonuscita di qualche decina di migliaia di euro. Molti lo fanno con sofferenza (lo racconta un bellissimo romanzo, Inox, di Eugenio Rampi, ex operaio TK), ma hanno la convinzione di non avere scelta. Hanno preso parte alla lotta collettiva, non ce l’hanno fatta, non ci credono più – non per ideologia, credo, ma perché troppe volte è andata male.

Non sarà un caso se quindici anni di lotte cominciate con l’epico sciopero generale del 2004 in questa città storicamente rossa si concludono con la destra al 57% e la Lega vicina al 40% e la fabbrica sempre più ridimensionata e isolata. Devono cavarsela da soli.

La filmmaker ternana Greca Campus ha intitolato un film su queste vicende Lotta senza classe. Qui sta il punto. Da un lato, i rapporti di potere: da almeno due o tre generazioni, le lotte collettive non la spuntano contro il potere invisibile e ferreo del capitale finanziario e della globalizzazione, e le trasformazioni nel modo di produzione sottraggono le basi materiali dell’identità di classe. Dall’altro, l’offensiva ideologica: la classe non esiste, l’unica solidarietà è la beneficenza, non esiste la società ma solo gli individui (Mrs. Thatcher), bisogna farsi “imprenditori di se stessi” come dicevano negli anni’80, il “merito” individuale è la sola misura dell’umanità, la classe retrocede a folla.

E’ la lezione che ripete ancora il liberalismo clintoniano e renziano e che culmina con “uno vale uno” dei cinque stelle (con la patetica parodia Pd del “tu vali tu”).

E’ diventato senso comune, peraltro falso e bugiardo, perché in una società sempre più diseguale è sempre meno vero che uno è uguale a uno. Uno significa semplicemente sei solo, siamo davvero una folla solitaria, in cui sono molto flebili e sempre meno convinte le voci che provano a ricordarci che noi insieme valiamo più della somma dei nostri uno.

Un tempo lo sapevamo. C’è un episodio epico nella storia di Terni, la grande rivolta popolare del 1953 contro i tremila licenziamenti alle acciaierie. A quel tempo, una canzone del poeta operaio Dante Bartolini trasformava la lotta difensiva in una speranza di futuro: “Non è lontana la grande vittoria”, cantava: “lavoratori avanti così”. Già nel 2004 mi accorgevo che le forme della lotta erano le stesse, a volte anche più dure, ma la visione del futuro era scomparsa, la nuova generazione operaia non lottava per liberarsi e andare avanti ma per non andare indietro e non affondare.

Delle due alternative su cui puntava il mio compagno operaio romano, ne resta a portata di mano una sola. Perciò mi addolora ma non mi sorprende vedere che, scomparsa la speranza di liberarsi tutti insieme, chi ha paura di affondare si abbandona subalterno all’affido ai potenti e indirizza le proprie frustrazioni verso capri espiatori alternativi.

Il sogno del sol dell’avvenire è dissolto e insozzato e non siamo stati capaci di sognarne un altro. Dice Bruce Springsteen: “Che ne è di un sogno che non si avvera? Diventa una bugia, una maledizione – o qualcosa di peggio?” Appunto.

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