Cultura

Dalle Chansons de geste ai «moderni» kamikaze

Scaffale La riproposta del Mulino di «Quell'antica festa crudele» di Franco Cardini. Il cavaliere non era necessariamente un personaggio d’alto rango, viveva però della sua specializzazione: la guerra

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 9 gennaio 2014

«Di lì a poco trovarono un giovanotto che camminava dinanzi a loro piuttosto adagio, e quindi lo raggiunsero. Portava la spada su una spalla, e vi aveva infilato un involto che doveva contenere i suoi vestiti e probabilmente i calzoni, il mantello e qualche camicia (…) Avrà avuto diciotto o diciannove anni, e mostrava di esser molto agile. Per ingannar la noia della strada cantava canzonette (…). – Alla guerra mi trascini – o mia triste povertà, ma se avessi dei quattrini – non ci andrei, no, in verità! -; Don Chisciotte fu il primo a rivolgergli la parola: – Cammina vestito parecchio leggero, il signorino, eh? – gli disse: – E dove andiamo, se è lecito? – Dove vado? – rispose il giovanotto – Alla guerra vado. E vado leggero per il caldo e la miseria». Così Miguel de Cervantes nel Don Chisciotte tratteggiava la figura miserabile del soldato diretto alla guerra: ed è in fondo l’immagine più consueta che abbiamo in mente, perché è quella più legata alle guerre degli eserciti di leva, o comunque alle guerre in cui i poveri vanno a morire, in cui costituiscono la «carne da cannone» spendibile senza alcuna remora.

Ma la guerra non è sempre stata così: è un fenomeno non meno dinamico di ogni altra manifestazione della cultura umana, al pari del commercio, del viaggiare, del mangiare e così via. È insomma un fatto culturale e come tale va indagata. È ciò che fa Franco Cardini in Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese (il Mulino, pp. 500, euro 30), pubblicato per la prima volta nel 1982, tradotto in francese da Gallimard nel 1992, più volte ristampato ed esaurito e oggi meritoriamente riproposto dalla casa editrice il Mulino in una nuova edizione arricchita da un’aggiornata introduzione dell’autore.

Dicevamo che la guerra non è stata sempre la stessa: non solo e non tanto perché le tecniche e le tecnologie mutano, ma soprattutto perché cambiano l’etica, le mentalità, le società. In epoca medievale il cavaliere non era necessariamente un personaggio d’alto rango, tuttavia egli viveva della sua specializzazione, la guerra, e di solito riceve da un senior (da un suo superiore per rango, età, status sociale) quanto gli era necessario per procurarsi un armamento sovente assai costoso. Nel sistema feudale europeo basso-medievale si impose anche l’espressione «feudo di cavaliere», a indicare un beneficio feudale le rendite del quale erano sufficienti a mantenere un cavaliere armato. Il cavaliere era in realtà non tanto e non solo un singolo guerriero, quanto piuttosto un’entità di combattimento: aveva bisogno di un gruppo di accoliti, di aiutanti, di apprendisti («scudieri»).

Con la coscienza dell’appartenenza a un’élite, a un corpo in qualche misura separato dal resto della società, la cavalleria medievale sviluppò anche una sua cultura che condusse a un’etica e a una produzione letteraria specifica: le chansons de geste, i romanzi cavallereschi che esaltavano l’azione di cavalieri i quali, nella realtà ordinaria, «assomigliavano ben poco a Lancillotto o a Galvano, e per nulla a Galahad». All’interno del ceto feudale e dei ranghi dei milites, nel corso dei secoli bassomedievali si andrà formando il ceto nobiliare, la cui condizione cioè veniva sancita dalla legge come trasmissibile di generazione in generazione. Ciò significa che, nei secoli medievali, la figura del povero soldato del Don Chisciotte sarebbe stata scarsamente comprensibile.

Ugualmente, l’utilizzo della violenza, ch’è ovviamente parte integrante di un conflitto, non è eternamente identico a se stesso. Sono belle le pagine nelle quali si illustra come gli episodi di saccheggio feroce che seguivano spesso la presa di una città fossero inscritte in una liturgia che occorre non giustificare, ma certo spiegare. Così come occorre spiegare l’impatto epocale delle armi da fuoco non soltanto sulla realtà dei combattimenti, ma pure sulla mentalità dei combattenti, come si legge in uno dei capitoli più riusciti, quello che seguendo le parole dell’Orlando di Ariosto viene intitolato «O maladetto, o abominoso ordigno…».

La sfida di Cardini, quando il libro è stato scritto e si viveva in anni nei quali l’esperienza militare sembrava qualcosa di cui si potesse fare a meno, e un facile pacifismo (è sempre facile il pacifismo in assenza di conflitti) trionfava in Europa, era mostrare come il fenomeno-guerra fosse in realtà qualcosa di ben più complesso e interessante di quanto non lasciasse intendere la cultura corrente. E questo non per celebrare il militarismo, ma per mostrare come: «Se l’uomo in guerra, e addirittura l’uomo di guerra, hanno saputo esprimere anche impugnando le armi qualcosa di nuovo e di positivo, e se in queste pagine ciò è stato rilevato, non è mai alla guerra che è andata la nostra lode: ma sempre e soltanto all’uomo»..

Ai nostri giorni, però, Quell’antica festa crudele esce in un’atmosfera molto differente rispetto a quella di trent’anni fa. Oggi sedicenti «esperti militari» affollano schermi televisivi e giornali per raccontarci la necessità di nuove guerra mascherate da «interventi umanitari» o da «operazioni di polizia internazionale»: l’Afghanistan, l’Iraq, la Somalia, la Libia e molti altri sono i casi che si possono citare. Per questo la nuova introduzione al libro, oltre che la sua ristampa, si rendono necessarie, in quanto Cardini afferma senza mezzi termini che negare alla guerra una riflessione intorno all’obbligatorietà di regole, di etica, di simmetria tra le parti in causa, cioè negarle una dimensione culturale e antropologica, equivale a far passare ogni forma di anomia e a negare ogni forma di diritto. Significa, per esempio, poter dichiarare unilateralmente i prigionieri «terroristi» negando loro ogni forma di difesa e di garanzia. Finisce per generare conflitti «asimmetrici», ossia monstra nei quali la cecità dei kamikaze si oppone a quella dei droni. Ecco quindi che, attraverso una riflessione sulle «antiche feste crudeli» che si sono combattute tra Medioevo e Rivoluzione francese, si giunge inevitabilmente a riflettere su come si combatte oggi. Se il bilancio, tocca dirlo, è tutt’altro che incoraggiante, ciò che di buono se ne trae è soprattutto una lezione storiografica importante sulla «storia sempre contemporanea», per dirla con Benedetto Croce: ossia su una storiografia che non si nasconde nel passato divenendo puro esercizio letterario, ma che lo interpreta e lo spiega con la mente sempre rivolta all’impegno nel presente.

 

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