Il nuovo incarico europeo di Mario Draghi è quello di individuare una strategia vincente dell’Unione di fronte ai suoi competitor, in particolare Usa e Cina. L’ex presidente del consiglio recentemente ha proposto la significativa cifra di 500 miliardi annui da investire nella transizione ecologica e digitale. Risorse che andrebbero ad aggiungersi a quelle per industria e servizi. Quei 500 miliardi dovrebbero essere raccolti da una sinergia di sforzi pubblici e privati. I secondi, è immaginabile, dovrebbero essere trainati dai primi. Altrimenti sarebbero già intervenuti autonomamente, frutto dei meccanismi spontanei di mercato tesi a fare profitti. Se risorse pubbliche dovranno svolgere la funzione di traino è altrettanto immaginabile che debbano costituire la gran parte delle risorse complessive. Stiamo, dunque, parlando di tanti soldi. Basti pensare che il solo Next Generation era di 750 miliardi, ma spalmati fino al 2026. Insomma, il ragionamento di Draghi prende le mosse dalla necessità di tenere il passo con le due superpotenze che perlomeno dalla crisi del 2008 hanno investito ingenti somme non paragonabili a quelle messe in campo nel Vecchio continente. Il primo problema risulta essere come racimolare tali risorse. Attraverso una finanza in comune, in parte sperimentata con il Next Generation, oppure con la fiscalità generale? Nuovo debito o maggiore imposizione fiscale sui grandi patrimoni?

Oppure un mix di entrambi? Ma il problema principale ci pare un altro. Per farne cosa? Da questo punto di vista vanno rilevati alcuni fattori. Il primo riguarda la netta decelerazione della crescita degli investimenti fissi lordi. In Italia siamo passati dal +9,9% del 2022 al +0,6% del 2023 (percentuale prevista anche per il 2024). Sembrerebbe che il tramonto degli interventi nell’edilizia incida su questa traiettoria, ma va rilevato che l’andamento degli investimenti in Italia segue, seppur con numeri peggiori, l’andamento medio europeo, il quale è in riduzione complessiva dal 2008, con una risalita dal 2019 per poi invertire nuovamente il trend dal 2022. Lo stesso vale per gli investimenti pubblici, anche in questo caso con una tendenza particolarmente negativa per l’Italia. Aver spolpato, a partire dagli anni Novanta, lo Stato ha portato al risultato di una mano pubblica incapace di programmazione e al contempo di saper spendere.

Ci vorrebbe una svolta profonda di cui non sembra esserci traccia all’orizzonte. Il Pnrr, ad esempio, se da un lato rispetta le tempistiche di spesa, non individua con altrettanta puntualità un indirizzo complessivo, una strategia. Soldi spesi in troppi rivoli, in grado di soddisfare formalmente le indicazioni europee, ma non di potenziare lo scheletro produttivo italiano. In molti campi, a partire dalla scuola, sembra che la parola d’ordine sia spendere per spendere, ma nell’incapacità generale di affrontare i problemi reali.

L’assenza di una visione di fondo è evidente. Sul piano industriale assistiamo contestualmente alla presentazione di nuovi progetti di privatizzazione, seppur parziale, al fine di fare cassa (come se i processi di privatizzazione in Italia non avessero dimostrato che non consentono di ridurre il debito e neppure di sprigionare capitali privati) e alla necessità di rinazionalizzare l’industria siderurgica. Tutto senza far tesoro delle esperienze passate e, nell’incapacità di misurarsi con un’economia globale dove i giganti statali intervengono fortemente a sostegno delle rispettive economie. Le contraddizioni dell’Unione europea non aiutano. I paesi che hanno un bilancio non troppo indebitato vogliono poter spendere, negando di fatto la medesima strategia a quelli più indebitati. Come se il continente potesse sopravvivere solo sui successi del blocco che ruota attorno alla Germania, che in questo momento, per altro, non gode di particolare salute. Grande sembra la confusione sotto il cielo, ma la situazione appare lontana dall’essere eccellente.