Dalla Svezia con furore, l’aurora psichedelica dei Goat
Note sparse Si intitola "Medicine" il nuovo album della formazione inciso per la Rocket Recording
Note sparse Si intitola "Medicine" il nuovo album della formazione inciso per la Rocket Recording
Sciamanico, rituale a un doppio livello – nel senso della puntualità dell’uscita, e poi soprattutto per via della riproduzione di riti ancestrali, terragni, folklorici, fosforici – è arrivato nei negozi di dischi l’ultimo dei Goat, il gruppo «rurale» svedese (si dice originario del villaggio di Korpilombolo, nell’estremo nord) divenuto oramai di culto anche per il fatto che i suoi membri suonano sempre mascherati, in costumi folcloristici, tonache, pennacchi, piumaggi.
Medicine uscito per la Rocket Recording – si contano, oltre al cd, nove versioni in vinile, nei colori più sgargianti, striati, maculati, che fanno di questi dischi dei veri e propri oggetti di culto – è il loro disco più bello: capolavoro di meditazione (ed eccitazione) psichedelica che a ogni brano diviene itinerario in spazi arcani, brughiere e brume. Ecco, rispetto agli altri lavori dei Goat questo è un disco meditato piuttosto che gridato, come accadeva invece già in World Music, il loro primo LP, nel 2012, in cui la voce della cantante, cantilenante e perentoria (come in un’evocazione pagana o un esorcismo) spesso sovrastava la filigrana strumentale, raffinatissima, raggiante di chitarre, fiati, percussioni, synth, tra afrobeat, word music, jazz, che fa di questo gruppo forse il fenomeno più originale e originario degli ultimi anni: vi convivono arcane tribalità, i sincretismi più astrusi fusi alla psichedelia più pura.
ORA in Medicine il canto diventa simbiotico all’infiorescenza strumentale, quella delle steppe, delle aurore iperboree, come ad esempio in I Became The Unemployement Office o vi si assenta del tutto: ed è così che il disco si può muovere negli spazi, in un impianto space-rock, in appendici prolungate a cui s’abbandona l’amalgama degli strumenti, la loro andatura cadenzata, i riverberi, gli intrichi di note. È viaggio – in lande ruvide di chitarra elettrica, che lascia cadere dalla vibrazione delle corde brandelli di terreno e radici; ecosistemi flautati, surreali; dimensioni acustiche fluttuanti – ed è ballo, come quello dal sapore medievale di Raised By Hills, uno dei vertici non solo di questo disco ma di tutta la musica del 2023. O come nel finale di TSOD in cui fanciulle leggere, con corone di viticci e viole sul capo, volteggiano festosamente sul prato; o ancora in Vakna dove la danza si fa liturgica, a tratti letargica, invocativa di chissà quale divinità boreale.
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