Dalla lista Tsipras a un partito. Di sinistra
Che fare? Un processo costituente, dal basso e partecipato, che in Italia e in Europa prenda le distanze da Pd e 5 Stelle. Il cui nucleo fondativo sono i comitati territoriali e non i gruppi dirigenti
Che fare? Un processo costituente, dal basso e partecipato, che in Italia e in Europa prenda le distanze da Pd e 5 Stelle. Il cui nucleo fondativo sono i comitati territoriali e non i gruppi dirigenti
V’è chi auspica un processo costituente, volto alla costruzione, dal basso, di uno spazio politico comune, sulla base del principio della democrazia partecipativa e del criterio «una testa, un voto». Ed è questa, a mio parere, la direzione del viaggio da intraprendere per condurre l’Altra Europa con Tsipras verso l’approdo di una formazione di sinistra che trascenda il carattere di «lista di scopo» con cui è nata. Un processo dal basso implica che si valorizzino i comitati territoriali, disseminati fin nella dimensione di quartiere, quelli che hanno reso possibile varcare l’ardua soglia del quorum.
Altra prospettiva non c’è, a meno che non si pensi di replicare lo schema di costruzione dall’alto con cui la Lista Tsipras ha esordito (per felice necessità), magari col conferire un ruolo di struttura intermedia all’insieme di ex candidati/e. E’ scontato che essi/e, che hanno contribuito con generosità al successo della Lista, costituiscano un prezioso patrimonio da valorizzare. Ma sarebbe la prima volta nella storia della sinistra (o almeno di quella «radicale», l’unica ch’io abbia mai frequentato) se si pretendesse di elevarli/e al ruolo di dirigenti della fase costituente: in quanto tali, non già in base alle loro qualità politiche e alla loro designazione dal basso.
Il secondo nodo che converrà affrontare è squisitamente politico. Io penso che la condizione per uno spazio politico comune, con l’ambizione di ricostruire una sinistra anti–liberista e anti–capitalista, sia l’autonomia politica e culturale dal Pd come dal M5S, per parlare della sola dimensione nazionale.
Allo stato attuale, neppure il primo caposaldo è scontato. Senza entrare nel merito dei conflitti che agitano Sel, basta riportare le dichiarazioni di Nichi Vendola in un’intervista all’Unità del 1 giugno: «Il nostro orizzonte è l’alleanza con il Pd, a condizione che si ricostruisca un profilo di cambiamento (…). Ingabbiare questo percorso (della Lista Tsipras, nda) in un nuovo contenitore non mi convince (…). Meglio metterci in ascolto e allargare il campo democratico, nel cui spazio vogliamo essere la sinistra».
D’altra parte, le probabilità d’una defezione di Sel si eleverebbero se mai l’esito del ripensamento di Barbara Spinelli fosse l’esclusione del candidato del partito. Né resterebbe del tutto priva di conseguenze la forzata rinuncia al seggio della candidata del Sud, di area Prc. In ogni caso, una complicanza seria interverrebbe a pregiudicare la sorte della creatura politica in embrione: nel migliore dei casi nascerebbe gracile. A meno che non si trovi un compromesso onorevole come quello della rotazione.
Quanto all’autonomia dal grillismo, è in apparenza ovvio che la prospettiva dell’alleanza del M5S con l’Ukip, partito nazionalista, ultra–liberista, nuclearista, razzista, nonché omofobo e sessista, abbia ormai seppellito la velleità di dialogo con il M5S, forse basata sull’illusione di poterne addomesticare l’anti–europeismo. Sebbene condivisa da un gruppo ristretto, l’espressione pubblica di tale velleità probabilmente ha sottratto alla Lista Tsipras un certo numero di voti, confluiti nel Pd: benché tutt’altro che renziani, alcuni elettori hanno preferito votare per chi si propone come argine al dilagare del grillismo.
Insomma, a rigor di logica politica la duplice distanza va da sé, soprattutto dopo che la strabiliante vittoria del Pd è stata salutata dal tripudio della Borsa e la pacca sulla spalla da parte della Confindustria. E dopo che un miserevole calcolo politicista ha svelato anche ai meno sagaci le pulsioni razziste dei due sommi capi del M5S, la loro vocazione demagogica e autoritaria, quantunque dissimulata dietro il culto della trasparenza e il mito della democrazia diretta garantita dalla potenza della rete.
E invece conviene ribadire, ripeto, la nostra radicale autonomia dallo schema dominante, che vede lo scontro fra due populismi in apparenza antinomici: il populismo liberale del piccolo Bonaparte con stile da piazzista, che «compra» voti elargendo ben ottanta euro alla plebe sofferente; e quello reazionario del duo Casaleggio–Grillo, che titilla il rancore soprattutto di ceti medi declassati dalla crisi e di lavoratori cognitari (per citare Giuliano Santoro) frustrati nelle loro aspettative e attratti dalla predicazione in favore della meritocrazia.
Certo, il M5S è fenomeno politico e sociologico ben più complesso e composito. Ed è perciò che, forse, chi vi si è rifugiato, per disperazione o assenza d’alternative, un giorno potrebbe essere attratto da una formazione di sinistra limpidamente anti–liberista, anti–capitalista, libertaria. E che valorizzi pluralismo, partecipazione e democrazia dal basso, incoraggi e sostenga i movimenti e il conflitto sociale, abbia come discriminanti l’antifascismo, l’antirazzismo, l’antisessismo.
Proiettate nella sfera dell’Unione Europea, queste discriminanti appaiono ancor più decisive. La soddisfazione per il nostro non scontato successo elettorale non può farci dimenticare quale sia l’Europa che ci consegnano le ultime elezioni: segnata profondamente dal «razzismo dei piccoli bianchi», i quali, impoveriti o stroncati dalla crisi, pensano di riscattare il loro onore sociale mediante l’inferiorizzazione degli altri e perciò premiano l’area torva che va dal nazionalismo populista al neonazismo.
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