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Dalla Liga veneta al «partito italiano», il Leone di San Marco è stato domato

Dalla Liga veneta al «partito italiano», il Leone di San Marco è stato domatoIl «lighista» Rochetta dopo la liberazione dei «serenissimi» – Ansa

Dalla secessione a oggi Quando Bossi inseguiva il miraggio del «Melone», la lista autonomista di Cecovini

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 13 gennaio 2018

Lega: senza più denominazione geografica. Salvini premier nel simbolo, perché l’assalto a palazzo Chigi conta più di tutto.

NELLA LEGA 4.0 Umberto Bossi rappresenta solo un ingombrante ricordo e perfino il «barbaro sognante» Bobo Maroni è al capolinea.

Dal pantheon della Padania virtuale sono stati espulsi insieme al Carroccio di Alberto da Giussano tanti altri simboli: il primo sindaco-sceriffo di Treviso Giancarlo Gentilini, l’assessore regionale lombardo alla sanità Alessandro Cè, il ministro del bilancio Giancarlo Pagliarini, gli assessori comunali di Cremona Jane Alquati e Claudio Demicheli, il sussidiario veneto del Quirinale Flavio Tosi, fino al consigliere comunale di Monteriggioni (Siena) Maurizio Montigiani.

Del resto, la storia dell’unico partito sopravvissuto alla Prima Repubblica è infarcita di beghe personali, scissioni politiche, piccole e grandi mistificazioni, stereotipi spesso infondati.

La Lega era scissionista, ma si converte al federalismo e a ora tratta l’autonomia a statuto costituzionale per il Lobardo-veneto.

IN ORIGINE, sembrava anticipare la Catalogna e si affidava alla «consulenza» di Gianfranco Miglio. Ma poi il «nordismo» ha reciso le vere radici del movimento al suo stato nascente. È la rimozione ancestrale che combacia con l’attuale identità fra Putin, Le Pen e Trump.

TUTTO INFATTI COMINCIA il 9 dicembre 1979 al Gran Caffè Municipale di Recoaro Terme, storica località termale vicentina.

Un centinaio di pionieri ascolta la relazione di Achille Tramarin, 33 anni, professore al liceo artistico di Padova: «Per i veneti è giunto il momento, dopo 113 anni di colonizzazione unitaria italiana, di riappropriarsi delle loro risorse naturali ed umane, di lottare contro lo sfruttamento selvaggio che ha portato miseria, emigrazione, inquinamento e sradicamento della propria cultura».

Tramarin, che è morto il 30 giugno 2017, finirà per dividere il tempo libero fra la Caritas e il circolo Pd di Altichiero.

Quando si celebra il congresso fondativo della Liga Veneta, Bossi inseguiva il miraggio del «Melone», la lista autonomista triestina di Manlio Cecovini.

Il 16 gennaio 1980 nello studio del notaio Giovanni Battista Todeschini in Galleria Storione 8, a due passi dallo storico palazzo dell’Università di Padova, si presenta insieme a Tramarin l’intero stato maggiore (con l’unica eccezione di Franco Rocchetta): Michele Gardin, Luigi Ghizzo, Bruno Da Pian, Patrizio Caloi, Paolo Bergami, Giuseppe Faggion, Marilena Marin, Agostino Alba, Giannico Faggion, Rino Basaldella, Valerio Cestenaro, Luigi Fabbris, Guido Marson. Depositano lo statuto del partito che vuole l’autodeterminazione e l’autogoverno del Veneto, insieme al simbolo in cui campeggia il leone di san Marco della Serenissima.

La Lega Doc, dunque, debutta all’insegna della «lingua veneta» e dell’Europa federale dei popoli. È l’esito politico delle tante serate alla Società Filologica Veneta (presieduta da Rosaria Stellin) o al circolo Russell, mentre il professor Manlio Cortelazzo dell’Istituto di Glottologia e Fonetica osservava da lontano.

UNA LUNGA STORIA anche di bizzarre coincidenze.

Il 7 aprile 1979 l’Italia era concentrata sul blitz di Pietro Calogero con gli arresti dei militanti di Autonomia Operaia. Ma a Verona c’è il summit degli autonomisti che alle imminenti elezioni europee convergeranno nelle liste dell’Union Valdotaine: 8 mila voti in Veneto. Diventeranno 13.236 alle Regionali del 1980, dopo aver raccolto centinaia di firme indispensabili a presentare simbolo e candidati nelle sette province.

E scatta il tam tam della propaganda con i volantini scritti a mano («Roma ladrona», «Il lavoro ai veneti», «Il massone Garibaldi non amava i veneti») e con le riunioni a pane e salame.

Nel frattempo, viene allontanato dal movimento Giulio Pizzati di Valdagno che coltiva legami con i fascisti di Terza Posizione e alimenta idee razziste.

LA LIGA VENETA IRROMPE sul serio nella politica italiana sull’onda di 125.347 voti nel 1983. Un deputato e un senatore: Tramarin e Graziano Girardi sono i primi “secessionisti” in parlamento.

Bossi candidato a Varese con il «Melone» è inchiodato da 157 preferenze…

A Montecitorio il 12 agosto durante la fiducia al governo Craxi l’aula ammutolisce scandalizzata, perché Tramarin motiva il suo voto contrario in… veneto.

Tuttavia, nella Liga è già tempo di faide: Rocchetta pretende il seggio parlamentare; a Padova si celebrano due congressi antitetici; comincia la guerra a colpi di carte bollate.

Così nel decennio successivo il Veneto sarà destinato a diventare la succursale della Lega Lombarda di Bossi, un serbatoio di consensi per il primo governo Berlusconi, l’approdo della mitologia celtica in motonave dal Po alla laguna.

È la Lega sempre meno di lotta e più di governo, il partito che eredita l’implosione della Dc: nelle «mappe» di Ilvo Diamanti i consensi del Partito Popolare di don Sturzo coincidono con quelli del Carroccio, dal Piemonte al Friuli.

POI A CAVALLO DEL DUEMILA molte strade si dividono.

Ettore Beggiato, uno dei padri fondatori, rilancia l’Unione del popolo veneto proprio contro Bossi: «Né schiavi di Roma, né sudditi di Milano».

Quindi tocca al tycoon di serramenti & televisioni locali Giorgio Panto inventarsi Progetto Nordest che nelle urne venete vale il 5% e soprattutto permetterà il Prodi-bis, sottraendo 92 mila voti alla Cdl.

Nell’estate del 2009 un episodio sintomatico: viene decapitata la statua di Bossi che Agostino Dal Lago, proprietario dell’ex hotel Augusteo di Recoaro, aveva piazzato nel giardino.

Oggi il sovranismo di Salvini resuscita quel fascio-leghismo incompatibile tanto con l’anima dorotea della Vandea Bianca quanto con la nostalgia del doge.

LA LIGA DOC, INFATTI, rivela un’irriducibile diversità dalle stanze di via Bellerio a Milano.

Il 9 maggio 1997 il «tanketo» del commando serenissimo assalta il campanile di san Marco, in attesa dell’«ambasciatore» Bepìn Segato destinato poi a diventare una sorta di Mandela del venetismo. Era l’intellettuale, del gruppo svezzato dai padri fondatori: Luigi Faccia nel 1983 faceva parte dei dieci consiglieri federali della Liga, concentratissimo sulla storia militare della Repubblica Serenissima; Flavio Contin era stato candidato al Senato; il meccanico Franco Licini predicava l’autonomismo veneto fra Conegliano e Belluno.

Vent’anni dopo – con l’ultimo califfo lombardo aspirante premier a Roma – la Lega è solo un «partito italiano». Come tutti gli altri…

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