Analizzando le Mani che disegnano di Escher, Douglas R. Hofstadter scriveva: «Ancora una volta livelli che di solito sono visti come gerarchici, quello che disegna e quello che è disegnato, si ripiegano l’uno sull’altro creando una gerarchia aggrovigliata. Qualcosa che era dentro il sistema esce dal sistema e agisce sul sistema, come se fosse fuori dal sistema». Dai paradossi visivi dell’artista olandese si fa presto a passare a quelli audiovisivi, l’ultimo dei quali vede protagonista Lucio Dalla, di cui Sony rilancia il concerto del 23 marzo 1986 al Village Gate di New York: al film DallAmeriCaruso – Il concerto perduto, diretto da Walter Veltroni e presentato ieri all’Anteo di Milano, seguirà l’album in digitale (da lunedì 20) e in formato fisico (dal 1° dicembre). In pratica, una stessa performance di canzoni già pubblicate su dischi precedenti, edita a sua volta nell’album DallAmeriCaruso, viene ora riproposta in video; dal quale infine è tratto un album con scaletta e audio parzialmente diversi rispetto a quello che aveva già mediatizzato la performance di partenza. Non è abbastanza paradossale ed escheriano?

QUANTO AL FILM, l’ex sindaco di Roma conferma un fiuto peculiare, essendo il suo secondo concerto «ritrovato» dopo il medesimo groviglio performance-medium targato De André-Pfm. Anche se nessuno dei due era andato perduto, in realtà. Più che ritrovarli, Veltroni li ha rimediati, in un triplice senso: se li è procurati, li ha rimessi insieme — corredandoli di contenuti docu-style — e soprattutto li ha ri-mediati, traducendoli cioè per un nuovo medium. ll risultato, come il precedente concerto ritrovato, è un artefatto sonoro che attesta la possibilità virtualmente infinita di ri-mediare e cogliere nuovi frutti — anche qui, in ogni senso — da un unico seme creativo e performativo.

INSERENDOSI nel sempre più rigoglioso filone dei concerti al cinema, questi film restituiscono se non altro un aspetto della performance originaria, quello della fruizione collettiva, restaurando non solo la qualità audiovisiva ma la possibilità di un coinvolgimento affettivo dello spettatore. Ben più difficile inquadrare il «nuovo» disco Dallamericaruso – Live at Village Gate, che recuperando quasi integralmente il concerto americano si presenta come un classico album live. Rispetto all’album del 1986 il doppio in uscita lunedì presenta quattro tracce in più (L’ultima luna, La sera dei miracoli, Tango, Chiedi chi erano i Beatles) ma rinuncia all’inedito in studio che ha reso immortale il primo, Caruso. Sulla cui leggendaria genesi, ennesimo gioco di specchi tra Sorrento e New York, per una volta è bello tacere. Il risultato, come il precedente concerto ritrovato, è un artefatto sonoro che attesta la possibilità virtualmente infinita di ri-mediare e cogliere nuovi frutti — anche qui, in ogni senso — da un unico seme creativo e performativo. Lo fa, ad esempio, affidando al Dolby Atmos l’illusione sensoriale di essere ancora lì, sotto un palco newyorkese, aggrovigliati in una gerarchia che vede la voce di Lucio continuare a cantare se stessa. Come la mano di Escher, fuori e dentro il sistema, livello inviolabile — per quanto ancora? — che permette l’esistenza di una musica che non è ancora perduta.