Salvini ruggisce: «Mi do tempo fino a settembre. Ci sono temi su cui non possiamo transigere». Poi bela: «Ma non c’è nessun ultimatum». Sembra il solito copione, lo è solo in parte. Stavolta l’ambiguo esercizio di equilibrismo deve fare i conti con un partito in ebollizione. Il capo svicola, rinvia l’ora del bilancio a dopo i ballottaggi, punta a presentarsi con una serie di vittorie della coalizione per controbilanciare la disfatta del partito. Ma c’è un nodo che non può ignorare: l’ira del nord, la tensione alle stelle in quello che è sempre stato lo zoccolo duro e l’azionista di maggioranza del Carroccio.

I GOVERNISTI, A PARTIRE da un sempre più desolato Giorgetti, sbottano perché il capo non valorizza il lavoro dell’esecutivo. I duri come Borghi, Siri e Bagnai spingono perché il leader punti i piedi anche a costo di rischiare la rottura. Ma non sono queste prevedibili e previste pressioni opposte a creare il vero problema. È la malcelata ira dei governatori Zaia e Fedriga, che non hanno affatto apprezzato l’esser stati tirati in ballo dal capo nell’intervista dell’ultimatum poi smentito: «Dirigenti e militanti (compresi Zaia e Fedriga) che credevano in Draghi chiedono ora di rifletterci».

È il mal di pancia lancinante a cui danno voce, come punta dell’iceberg, l’europarlamentare Da Re, «In Veneto la Lega non si riconosce più nella politica di Salvini. Vogliamo che venga e spieghi la sua politica fino alle elezioni», e l’assessore del Veneto Marcato: «Va fatta una riflessione profondissima e violenta, partendo dal regionale per arrivare al nazionale».

L’AFFONDO NORDICO NON VA confuso con quello dei “governisti”: il vero problema dei leghisti del nord non è tanto il frondismo nei confronti dell’esecutivo quanto l’aver perso di vista la principale ragione sociale della Lega, cioè la difesa dei ceti produttivi del settentrione. La richiesta, tanto più alla vigilia di una fase che proprio per quei ceti promette di essere tra le più difficili, è tornare a far quadrato sulla difesa di quegli interessi più che sul miraggio della Lega nazionale. Per questo da un lato è necessario che la Lega resti al governo e in maggioranza, dall’altro che si ponga con attitudine quasi “sindacale”, soprattutto quando sarà il momento di discutere e varare la legge di bilancio.

NON A CASO IERI, DOPO che la ministra Carfagna rispondendo nel question time aveva cercato di mettere paletti sul ddl autonomia rafforzata che la ministra Gelmini intende presentare prima dell’estate, i ministri leghisti hanno diffuso un comunicato congiunto ultimativo: «Bisogna uscire dalla vecchia e anacronistica contrapposizione tra nord e sud. I risultati dei referendum non possono essere disattesi». Subito dopo hanno rincarato i capigruppo Romeo e Molinari: «Chi come Conte o Fassina parla di secessione dei ricchi alimenta timori insensati.

L’unico vero insulto è non tenere conto del voto di milioni di cittadini». In parallelo, la Lega si è rifiutata di ritirare gli emendamenti sul Csm, nonostante la richiesta molto pressante del governo, e anzi ha chiesto al Senato il voto segreto sulla custodia cautelare. Non che il Carroccio sperasse in un risultato a sorpresa. Stava solo chiarendo che d’ora in poi la contrattazione con il governo sarà continua e martellante su tutto e, in particolare, su quello che deve tornare a essere il nucleo duro della politica leghista: il nord. In un simile contesto le speranze del Pd che Salvini, pur di sbarrare la strada a sorella Giorgia, accetti di far passare una riforma elettorale proporzionalista sono, se non proprio inesistenti, almeno molto esigue.