«Destins parallèles» è il nuovo slogan delle Journées du cinéma québécois en Italie/Giornate del cinema quebecchese in Italia, giunte alla loro XXª edizione. Dal 3 al 9 marzo un viaggio tra destini paralleli, appunto, attraverso 11 opere – presentate in anteprima italiana – tra realtà a finzione con l’intento di farci identificare nelle storie dei protagonisti, come sottolinea il direttore artistico Joe Balass: «Il tempo del cinema è immaginario e, dentro quel suo ritmo scomposto, si generano i destini che immaginiamo paralleli alle nostre identità».

Le proiezioni in sala toccheranno Milano, Torino (5 marzo Museo Nazionale del Cinema), Bologna (4 e 6 marzo Cinema Orione), Napoli (8 marzo Cinema Academy Astra – 9 marzo L’asilo/Ex asilo Filangieri) e Avellino (7 marzo Cinema Partenio/Movieplex); la forma online è stata mantenuta con una programmazione speciale dedicata ai cortometraggi ed è liberamente accessibile da tutta Italia sulla piattaforma OpenDDB. Il programma completo con tutte le informazioni necessarie lo potete reperire sul sito cinemaquebecitalia.com.

Balass, tornato fisicamente in Italia dopo due anni di assenza dovuta alla crisi pandemica, ha inaugurato ieri la prima proiezione milanese presso il CinéMagenta63 dell’Institut Français, in compagnia della regista canadese di origine haitiana Miryam Charles – con il suo Cette maison -, che rimarrà in Italia per presentare il film anche nelle date di Torino, Bologna e Napoli.

Nel gennaio del 2008, a Bridgeport (Connecticut), una tredicenne che vive con la madre viene trovata impiccata all’interno della loro abitazione. In un primo momento si ipotizza a un suicidio, ma il medico legale rivela che in verità la giovane sia stata prima violentata e successivamente assassinata. Dopo quindici anni dal terribile fatto la regista, nonché cugina della vittima, decide di raccontare questo crimine irrisolto. Infatti, l’identità dell’assassino risulta tutt’ora sconosciuta.
Miryam Charles regista e direttrice della fotografia di origine haitiana che vive a Montreal, qui al suo esordio nel lungometraggio, imbastisce una docufiction dal taglio sperimentale (era al Forum della Berlinale 2022), in cui riversa lo shock personale vissuto con dolore lancinante. Quello di Cette maison vuole essere un viaggio «fluido» nel tempo e nello spazio, dove la grana delle immagini realizzate in 16mm sono contrassegnate dell’eco di una nostalgia impotente: all’inizio udiamo una voce fuori campo, quella della vittima (incarnata dall’attrice Schelby Jean-Baptiste), intenta a raccontare la propria storia «tragica e, al contempo, piena di speranza», che possa tenere vivo il ricordo della sua anima. È come se Miryam Charles sia in costante stato di trance mentre gira: dissolvenze fumose si dipanano su una fotografia volutamente intorbidita (a firma della stessa regista con la collaborazione di Isabelle Stachtchenko), facendoci immergere in quel passato ingombrante e irremovibile; noi siamo perennemente con lo sguardo accanto al suo occhio e, soprattutto, accanto alla madre della vittima (la brava Florence Blain Mbaye), personificazione del coraggio e della tenacia nel cercare di scoprire – prima o poi – la verità.

Charles s’impegna in questo percorso «impossibile» sfruttando l’escamotage della messa in scena teatrale, dandoci la convinzione di un tempo cristallizzato, laccato tra ricordo eterno e strazio insanabile: spazi e luoghi bidimensionali (tra camerette dal sapor confetto con poster alle pareti e salotti stracolmi di piante e fiori) danno ancora più risalto al dialogo, alle riflessioni, ai gesti, ai silenzi, alle lacrime, ai sorrisi di mamma e figlia; senza risparmiare la crudezza lapidaria del medico legale quando si trova costretto a rivelare alla madre che la morte di Terra Alexis Wallace, questo il vero nome della ragazza, sia stata lenta e atroce, con la conferma di un’aggressione sessuale conclusasi in strangolamento. E, intanto, la voce della ragazza rivive attraverso le parole dell’attrice chiamata a impersonarla: «Questa non è la mia vita, non è successo a me. Niente è reale. Domani mi sveglierò», ripete compulsivamente sul freddo tavolo autoptico trasformato in giaciglio di riflessione; ed è proprio così, una storia volutamente impossibile filtrata dallo sguardo che diventa suo alter ego: regista e genitore si fondono nella stessa angoscia senza tempo, fossilizzata nel torpore del limbo. Charles vuole quindi esorcizzare il trauma del lutto con la trasfigurazione della cuginetta, rimarcando l’attaccamento estremamente profondo che le univa, utilizzando il rifugio del sogno per farle rivivere tutto quello che le è stato crudelmente negato nella vita terrena.

Mentre le immagini fumose, dal sapore acre, scorrono davanti ai nostri occhi, la madre della vittima s’interroga sul tremendo senso della vita: «Vedo tutto, so tutto», dice alla figlia e questa ribatte: «Tutto è vano ed effimero. Preghi e speri di ricongiungerti a me, un giorno. Dico a me stessa che tutto sia possibile». E il bello del racconto cinematografico respira proprio in quest’ultima frase: tutto è possibile attraverso il linguaggio della mdp; specie quando ad essere raccontata è una biografia funerea e «immaginaria» alla disperata ricerca di giustizia perpetua, di memoria da onorare attraverso «il mondo dei sogni». O dell’incubo.