Ad apertura di sipario, la scena, candidissima, mostra tre loggiati dove abitano figure ugualmente candide, con un candido velo che copre i capelli. Sul piano della scena bambini candidissimi stanno addossati alla parete. È il paradiso, dove Mefistofele sale – una scala a chiocciola metallica con in cima una tribuna – per fare un patto con Dio. È il prologo del libro di Giobbe, che Goethe riutilizza sostituendo Faust a Giobbe come oggetto del patto. Ma le somiglianze con Goethe finiscono qui. L’intenzione, e il vanto, di Arrigo Boito era di portare sulla scena, musicalmente, non scene dal Faust, come Schumann o la sola vicenda di Margherita, come Gounod e Berlioz, bensì l’intero, titanico, dramma, dal patto alla salvezza. Il risultato è invece modesto. A cominciare dal cambio di prospettiva: il diavolo al posto dell’uomo, come protagonista. La durissima analisi che Sapegno tratteggia della Scapigliatura milanese, come di una ritardata e inadeguata esplosione romantica in un paese che non ha conosciuto il romanticismo, coglie il nodo della questione.

GOETHE, che non è un romantico, è però l’idolo dei romantici. Che, però, accantonano il messaggio illuministico per cogliere il poeta delle passioni. Boito, e gli scapigliati, vi aggiungono un gusto del demoniaco ma fraintendono ciò che Goethe intende per demoniaco. Ne esce fuori un pasticcio velleitario che rasenta il Kitsch e il ridicolo. Oltretutto Boito non possiede, come Verdi o Wagner, gli strumenti musicali per inventarsi una nuova drammaturgia, e perciò il suo progetto è destinato al fallimento, a produrre un dramma lillipuziano da un soggetto gigantesco. Simon Stone sembra intuirlo, e di fatti poi le scene terrene non sono così diverse dalla scena paradisiaca.

UNA UNIFORME tinta bianca percorre tutto lo spettacolo, il diavolo è un pagliaccio – in Goethe un cane barbone, in Boito un frate – che poi diventa una sorta di prestigiatore o intrattenitore. Ma dimentichiamo Goethe. La fragilissima intelaiatura del dramma, la striminzita Elena che sembra una parodia neoclassica, il sabba da baraccone, finiscono per allietare e divertire il pubblico che applaude anche a scena aperta e decreta alla fine un trionfo per tutti.
Mefistofele inaugurava la stagione 2023-2024 del Teatro dell’Opera di Roma. Teatro stracolmo. Il bric-à-brac piace al pubblico di una società ridotta ormai anch’essa a un bricà-brac. Ma gli applausi erano meritati. Stone ha costruito uno spettacolo ironico e divertente, Michele Mariotti si è sforzato di dare spessore a una musica che non ne ha, Joshua Guerrero, Faust, e John Relyea, Mefistofele, hanno bene indossato i panni di fantocci da circo, Maria Agresta, nelle parti di Margherita e di Elena, ha dato credibilità a personaggi che non ne hanno, e tutti gli altri interpreti hanno bene assolto ai loro ruoli. Un elogio particolare al coro, che forse è il vero protagonista dello spettacolo e, a seconda delle scene, dà il giusto senso d’immobilità o di confuso movimento che la situazione richiede. Repliche fino al 5 dicembre.