Lasciate suonare la musica. Il 64° Festival dei Popoli riserva una sezione ai documentari segnati dalla musica. Non solo all’impronta storico-biografica di una celebrità canora o di una corrente musicale, ma concernenti la varietà di dimensioni e sfere di vite individuali e collettive, di stati d’animo e condizioni sociali permeati da ogni aspetto e genere di musica. «Let the music play» comprende una selezione di film in cui le diverse sonorità musicali sono la chiave d’accesso a storie di vita, lontane dalla mera agiografia di personaggi o dalla stretta osservanza elegiaca di concerti ripresi, che si tratti di giovani esecutori in cerca di affermazione o di icone già ampiamente affermate.

Quindi si va dalla voce e i ricordi inediti di Joan Baez in I Am a Noise alle copertine memorabili di album rock create dallo studio Hipgnosis in Squaring the Circle di Anton Corbijn, dal volo verso una Mosca ancora sovietica con i CCCP – Fedeli alla Linea oltre la cortina di ferro a suon di punk in Kissing Gorbaciov di Andrea Paco Mariani e Luigi D’Alife a Pete Doherty: Stranger in My Own Skin di Katia deVidas, sull’iconoclasta cantante britannico in lotta con il mondo e con se stesso. E ancora Jacopo Farina con ANTI-POP, ritratto dell’artista atipico Cosmo, i giovani pianisti concorrenti di Pianoforte di Jakub Piatek e il Midwest di chi prova a costruirsi il proprio successo in Caiti Blues di Justine Harbonnier.

A Madrid, non la movimentata capitale iberica bensì una località sperduta nel New Mexico con l’accento anticipato, non succede molto. È un posto dove i sogni, se nascono, hanno troppa strada da fare prima di incontrare una sponda nella realtà. Caiti Lord ha sempre sognato di fare la cantante e la voce non le manca, come dimostra nelle feste a cui la comunità locale partecipa attivamente, dandosi un gran daffare per organizzarle. La quasi trentenne barista, nonché deejay alla piccola radio locale, è capitata a Màdrid per fuggire da New York dove è nata, cresciuta e ha studiato musica, esibendosi anche a Broadway con prospettive promettenti. Auto-esiliatasi e lontana dalla scintillante Grande Mela, pur integrata nella comunità locale, non riesce a trovare pace nemmeno nell’ex paese fantasma circondata da deserto e montagne. Non riesce a starci, ma nemmeno ad andarsene, come racconta quotidianamente nei suoi lenti monologhi improvvisati alla radio ad ascoltatori ipotetici. Ma la notte si vivacizza, con spettacoli amatoriali curati per addobbi e costumi nonché insospettabili scorci di trasgressione, riproponendo pezzi di Rocky Horror e, fuori scena, sesso e sballo. Poca cosa al confronto della follia nazionale all’epoca di Trump, segnata dall’incertezza e da una insensata apatia. Anche Caiti però ha il suo blues da cantare, con chitarra e voce determinata molto apprezzata da chi le sta attorno, mentre cresce la convinzione di potercela fare a uscire dalla stagnazione esistenziale.

«Come to this beautiful state, the state of sound»: la docente con mascherina massaggia le mani dell’allievo pianista –capelli lunghi, barba, occhiali- mentre lo invita ad immergersi nella dimensione del suono, riportando in vita Chopin, mescolando antistress e ritualità, corpo e anima. Inizia così una sequenza di primi piani di espressioni tese di suonatori prima di posare le dita sulla tastiera bianca e nera. Siamo alla prestigiosa Chopin competition che si tiene a Varsavia dal 1927, in bianco e nero con musica rock a commento, che si prolunga per 21 giorni ininterrotti. C’è Eva che, dalla palestra al piano, si tiene costantemente allenata guidata dalla propria coach. Vediamo Marcin, dalla mimica facciale espressiva sofferta e divertita, con il gatto in primo piano, mentre si esercita sui tasti. Alex in maglietta bianca, occhiali tondi e capigliatura spigliata, percuote lo strumento con piglio sperimentale. Hao è studente impegnato su due fronti, fra scienze politiche e il Notturno. Chi porta la mascherina e chi no, dove anche la pandemia è in fase di transizione, ognuno con il proprio sogno di scalata prova i pianoforte fra Steinway e Kawai alla ricerca di quello più adatto alle proprie dita e personalità. Si giunge così al primo giorno di competizione in cui i pianisti devono dimostrare tutte le loro abilità in un breve repertorio, ma non è che l’inizio di un percorso lungo ed estenuante in cui le giovani promesse si giocano tutto.

Primo piano dell’artista che canta la sua libertà, seguita dalla citazione da Marquez: «Ognuno ha tre vite: la pubblica, la privata e la segreta». Inizia così Joan Baez: I Am a Noise di Karen O’Connor, Miri Navasky e Maeve O’Boyle con cui il Festival dei Popoli ha inaugurato la sua settimana. Ritratto aperto e personale della cantautrice americana, il documentario racconta una lunga esperienza di vita e carriera come paladina dei diritti, ma anche le lotte interiori e le vicende intime a lungo celate.

Nel contesto di un’epoca in movimento, al fianco di Bob Dylan e a sostegno di Martin Luther King, Baez confessa di essere stata forse più portata a rapportarsi con duemila persone invece che con una sola. Con l’inclusione di fotografie e filmati familiari, disegni e animazioni essenziali integrative, spezzoni di concerti, emerge soprattutto una Baez consapevole e riflessiva sul proprio percorso.

Di inevitabile fascino, non fosse altro per le sofisticate copertine di album monumentali del rock presentate, è la storia dello studio Hipgnosis (ovvero degli immaginifici Storm Thorgerson and Aubrey «Po» Powell) narrata in Squaring the circle (Quadrare il cerchio). «La musica rock era la forza dominante nella rivoluzione culturale degli anni ’60 e l’album era re» -afferma Peter Gabriel- «Attraverso immagini audaci e stupende, e occasionalmente una creatività scandalosa, Hipgnosis è diventato lo studio di design di dischi più influente del mondo».

Dello stesso tenore sono le testimonianze di Nick Mason e Roger Waters (Pink Floyd), Robert Plant (Led Zeppelin), Paul McCartney e di altri ancora, a confermare quanto già i nostri occhi ci dicono rivedendo innumerevoli copertine di forte impatto visivo da Atom Heart Mother a The Dark Side of The Moon. Si parte dagli albori dei Pink Floyd, tutti poco più che ventenni vitali con i due fotografi intenti a creare un’immagine per lo «space rock» in procinto di uscire su vinile. Attingendo da un libro di foto del cosmo, dal fumetto Marvel Doctor Strange e da qualunque altra fonte, anche lisergica, sviluppano, stampano, ritagliano, rimontano, sperimentano fino ai confini dell’analogico.