
Dal nostro inviato, Billy Wilder!
Chi è Billy Wilder prima di diventare Billy Wilder? Quando il 22 gennaio 1934 s’imbarca sull’Aquitania alla volta di New York, nei suoi bagagli aveva messo Addio alle armi di Ernest Hemingway, Babbit di Sinclair Lewis e Angelo, guarda il passato di Thomas Wolfe, ma non certo la settantina di articoli scritti per i giornali di Vienna e di Berlino, ormai alle sue spalle dopo le sceneggiature confezionate per l’Ufa, firmate o no, e la mezza regia realizzata durante il breve soggiorno parigino. Senza l’anticipo che gli aveva mandato la Columbia, ingaggiandolo a distanza come scenarista, non avrebbe potuto neppure pagarsi il biglietto della traversata. Gli restano venti dollari, più di quello che hanno in tasca gli altri immigrati che come lui tentano la fortuna negli Stati Uniti. Con la conoscenza del tedesco, del francese e di un centinaio di parole d’inglese, si avvia a raggiungere la colonia dei rifugiati europei che negli anni a venire avrebbero cambiato per sempre Hollywood. Non fa neppure in tempo ad ammirare l’Empire State Building che deve prendere il treno per Los Angeles, tre giorni e due notti di viaggio, simbolico annuncio della lunga strada che avrebbe dovuto percorrere per affermarsi negli studi delle majors, per le quali scrive più di una quindicina di sceneggiature. Soltanto nel ’42 per la Paramount gira Frutto proibito, il suo primo film di regista, maliziosa commedia con Ginger Rogers e Ray Milland, dove già si avverte la zampata del leone, l’ambigua autorialità a doppio fondo con perfidi sottotesti e sardonici ammiccamenti, che sarà per un quarantennio il suo beffardo marchio di fabbrica.
Billy Wilder, Inviato speciale Cronache da Berlino e Vienna tra le due guerre, pubblicato da La nave di Teseo nella traduzione di Alberto Pezzotta (pp. 268, euro 20,00), raccoglie per la cura di Noah Isenberg i pezzi che il futuro regista scrive fra il settembre 1925 e il novembre 1930, esordendo diciannovenne con una serie di interviste in cui la disinvoltura supplisce all’inesperienza. L’incontro con Asta Nielsen, la popolarissima diva del cinema scandinavo appena passata al teatro, è tutt’altro che un clamoroso battesimo del fuoco. Arrivato in anticipo nel camerino, chiacchiera a lungo con il marito della grande attrice, che fa in tempo soltanto a dirgli perché non ha nessuna intenzione di andare in America: «Come potrei essere felice laggiù? È un paese privo del senso della cultura e dell’arte!». Non andrebbe molto meglio neppure con il Principe di Galles, che si annoia a morte a Buckingham Palace, se Billy – anzi Billie, come allora si firma – non decidesse di prendersi gioco dell’illustre personaggio. Si aspettava maligne rivelazioni sul mondo dorato di lord e duchesse, e magari qualche consiglio sull’eleganza, e invece niente. Per ripicca gli mette in bocca uno scoraggiante resoconto del giro del mondo con hotel da sei bagni, due sale da biliardo, una da bridge, tre bar, mandando all’aria il fascino fasullo del funny boy. Grock, il clown che fa ridere tutto il mondo, è stanco e vuole andare a dormire, mentre il reporter si affanna a rievocare la sua prodigiosa carriera. Ma il clown è triste. L’unico che potrebbe intrattenere Grock è Grock stesso. Vedendosi, si emozionerebbe fino alle lacrime. Se non fosse per la testa, nobile e raffinata, Fëdor Šaljapin, il basso più pagato del mondo, sembrerebbe un peso massimo di lotta libera. Il grande cantante è un fan entusiasta di Toscanini e di Rachmaninov. Scendendo le scale, senza accorgersene Billy, contagiato ma consapevole dei propri limiti, comincia a fischiettare la canzone dei battellieri del Volga.
Il cinema va in scena con i due brillanti ritratti di Erich von Stroheim, l’uomo che vorreste odiare, e Adolphe Menjou, l’uomo che ha inventato i baffetti alla Menjou. Se il primo lo paragona a George Grosz perché i suoi personaggi hanno scritti in faccia i loro pensieri brutali, il secondo lo ritrae quando in pigiama di seta firma centinaia di foto per le sue fans, mentre il servitore giapponese passa l’olio sacro sui suoi baffi. Si resta nello spettacolo con l’arrivo a Vienna delle trentadue gambe più attraenti del mondo. Sono quelle delle Tiller Girls di Manchester, sedici splendide ragazze inglesi che, in un concerto di cinguettii e risolini, sono felicissime di farsi intervistare. Quando poi decidono di andare al Prater, a Billy non resta che accompagnarle per ammirare con loro la ruota panoramica e abbuffarsi di gelato nella pasticceria di zona. Ma l’incontro più clamoroso è quello con l’americano Paul Whitman, che dirige col ginocchio la famosa orchestra jazz. L’empatia che esplode spontanea fra Whitman e Wilder è tale che il direttore gli paga il viaggio e l’albergo di Berlino, perché possa assistere al grande concerto al Grosses Schauspielhaus. Quando attacca la Rapsodia in blu di Gershwin, gli applausi si sprecano. «Siamo pro o contro il jazz? È la musica più moderna di tutte? È kitsch? È arte?», si chiede il giornalista. «È un modo di far scorrere nuovo sangue nelle sclerotizzate arterie europee».
Arrivato a Berlino, Billy, a cui l’ambiente viennese stava ormai stretto, non se ne va più. Sul Berliner Börsen Courier e poi su Tempo, il nuovo tabloid, scrive la maggior parte degli articoli di costume in cui le sue antenne captano i paradossi della normalità. Negli anni della Repubblica di Weimar, Berlino è la città cosmopolita di cui Wilder ha bisogno per reinventarsi, preparando il suo trasferimento a Hollywood. «La metropoli è travolta», scrive Noah Isenberg, «da un’ondata di Amerikanismus che sembra inesauribile e che si esprime nella passione per il charleston, i cocktail bar e le macchine sportive, nonché in una vita notturna di fama internazionale, illuminata dai tubi al neon della pubblicità». Il mondo in ebollizione della capitale tedesca si riflette solo in parte negli scritti dell’inviato, che alterna apologhi sopra le righe a brani di vita vissuta.
La postazione quotidiana dove si incontra con i nuovi amici è il Romanisches Café sulla Kurfürstendamm. È lì che tra il 1929 e il 1930 nasce Menschen am Sonntag, e cioè «Uomini di domenica», il docu-film sul fine settimana di un gruppo di berlinesi interpretati da se stessi. L’idea nasce tra le chiacchiere al bar, ma il soggetto finale è firmato solo da Billie Wilder. La regia è condivisa tra Robert Siodmak, Edgar G. Ulmer, Fred Zinnemann. L’operatore è Eugen Schüffran. Tutti nomi importanti destinati a entrare nella storia del cinema. Solo Moriz Seeler, il fondatore della casa di produzione Filmstudio 29, finirà tragicamente, morendo qualche anno dopo in un campo di concentramento. Il film di 75’ – realizzato senza soldi, senza uno studio, senza professionisti, senza una vera organizzazione – è un piccolo capolavoro, che coglie con singolare freschezza la gioia di vivere di una generazione, assolutamente ignara del minaccioso destino pronto a esplodere di lì a poco. Billy gli dedica un pezzo quando il 4 febbraio 1930 il film viene proiettato con successo all’Ufa-Theater nella stessa strada dove ha sede il mitico café in cui è nato il progetto.
La raccolta finisce con una serie di brevi recensioni dei film che escono sugli schermi della città, una immersione a tutto campo nel mondo del cinema che è quasi un curioso ripasso prima di trovarsi dietro la cinepresa. Ma il reportage più bello è il racconto della sua esperienza di ballerino a pagamento scritto nel gennaio 1927, assunto dal lussuoso Eden Hotel. Si fa insegnare i passi più importanti da un esperto e, indossato il vestito giusto, si tuffa nella infernale routine dell’accompagnatore di signore e signorine di età, con cui volteggia nella pedana dell’hotel: «Io sono un ballerino. Il mondo mi accoglierà tra le sue braccia!».
Su Billy Wilder la bibliografia è sterminata. Segnaliamo due libri fondamentali la biografia di Hellmuth Karasek, Billy Wilder. Un viennese a Hollywood, Milano, Mondadori, 1993, e Conversazioni con Billy Wilder di Cameron Crowe, Milano, Adelphi, 2002.