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Dal Living a Bene, le verifiche di un critico con la matita rossa

Dal Living a Bene, le verifiche di un critico con la matita rossa«Nostra Signora dei Turchi», Roma, 1967, Teatro Beat 72: Isabella Russo, Imelde Marani, Alfiero Vincenti, Lydia Mancinelli e Carmelo Bene durante le prove dello spettacolo, foto di Claudio Abate

Teatro militante: Elio Pagliarani Scritte in origine per «Paese Sera», le cronache di Elio Pagliarani poi raccolte nel «Fiato dello spettatore» (’72) davano conto di anni cruciali anche per il teatro. Adesso tornano in libreria per l’Orma, ma ampliate fino all’84

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 30 aprile 2017

Elio Pagliarani naturalmente lo si era conosciuto prima come poeta, in quella antologia dei Novissimi che aveva avuto più edizioni nel corso di un decennio prima di capitare fra le mani di chi, per ragioni generazionali, arrivava dopo. E subito lo si era messo, forse con un po’ di giovanile ingenuità, sullo stesso scaffale di quegli americani che da ragazzi si era cominciato a scoprire grazie alla Nanda Pivano, quasi fosse un beat della riviera romagnola trasmigrato fra i «sotterranei» di Milano. Insomma, quando nei primi anni settanta si era letto Il fiato dello spettatore, qualcosa era già in moto. Giacché già si seguivano le cronache che Ripellino andava scrivendo settimanalmente per «l’Espresso» – un altro poeta, non per caso, oltre che raffinato slavista. E del resto era capitato anche con Arbasino e Fratelli d’Italia, diventati in fretta gran libro di formazione che aveva spinto poi alla scoperta retroattiva delle avventure teatrali di Grazie per le magnifiche rose. Dico sempre di quella generazione lì, uscita poco più che adolescente dagli anni del fracasso. Tanto bastava per sentirsi un po’ nipotini, visto che i padri li si rifiutava. In anni successivi si sarebbero uniti alla famiglia anche Lo spettatore addormentato di Flaiano e Garboli Un po’ prima del piombo, in una sorta di pendolare moto retrogrado di recupero di una memoria che non è soltanto teatrale.
Il fiato dello spettatore raccoglieva le cronache (in realtà una parte soltanto) scritte da Pagliarani per Paese Sera dal 1968 al ’72, poco conosciute fin lì a chi per distanza geografica o altro non leggeva il quotidiano romano. Anni di sotterranei rivolgimenti, quel quinquennio che qualcuno aveva creduto di puro ritorno all’ordine. L’esplodere di politicità del ’68 non aveva risparmiato il teatro, che anzi era stato fin dall’inizio in prima linea nella corsa verso l’immaginazione al potere. Dopo tutto era stata l’occupazione di un teatro borghese, l’Odéon di Renaud e Barrault, il primo atto simbolico degli studenti del Maggio francese: in un’immagine d’epoca ritroviamo Julian Beck, il leader del Living Theatre, in mezzo a loro con un megafono in mano. Di lì a poco il Living si frantumerà, dopo che ad Avignone sono state proibite le repliche di Paradise now, lo spettacolo con cui avevano voluto abbattere l’ultima barriera fra attori e spettatori. Ma l’onda d’urto provocata dall’uscita dai teatri è ancora maggiore nel nostro paese: Carmelo Bene abbandona le scene e per cinque anni si dedicherà solo al cinema; persino Strehler lascia la direzione del Piccolo.
Non è un caso che Il fiato dello spettatore si concluda con il ritorno di Carmelo Bene sul palcoscenico che aveva tradito per quei suoi filmacci geniali, con una turbolenta ripresa di Nostra Signora dei Turchi «nella fossa delle bolognesi» (a proposito di fiato dello spettatore), di cui Pagliarani ci regala una cronaca di divertimento assoluto. Un cerchio all’apparenza si è chiuso. Ma non è che nel mezzo ci sia la terra di nessuno. Ci stanno, intanto, grandi spettacoli formativi come le sorprendenti regie di Aldo Trionfo, e la scoperta recente di Artaud consentiva di leggere Brecht fuori dai canoni imposti. Un teatro che Pagliarani segue con attenzione severa: quanto più gli pare rilevante quel che vede, tanto più sembra sentire la necessità di appuntare le armi critiche. Esemplare è in questo senso il caso di Luca Ronconi, che egli non manca di commentare con la matita rossa in mano, salvo poi concludere che resta uno dei pochi di cui si ha voglia di dire.
Ora che il libro torna disponibile grazie a L’orma (Il fiato dello spettatore e altri scritti sul teatro (1966-1984), pp. 416, euro 35,00), ci si potrebbe chiedere come mai nessuno ci abbia pensato prima. Sarà la diffidenza per la parola «teatro» che manifesta l’editoria nazionale, pronta invece a tuffarsi sulla biografia di un calciatore o l’ennesimo libro di cucina. Non si tratta in realtà di una mera riedizione del precedente, questa curata da Marianna Marrucci. Oltre a un opportuno restauro del testo (per dire, i nomi degli attori di Eugenio Barba, in Feraï, sono tutti sbagliati nel vecchio volumetto di Marsilio che pure ci è comprensibilmente caro), si allunga il panorama osservato – anche il titolo si è allungato ad «altri scritti sul teatro», ora sino al 1984 – coprendo così per intero un decennio cruciale. La scelta della curatrice fra le centinaia di recensioni pubblicate ubbidisce in primo luogo a un dichiarato criterio di continuità con le scelte operate in origine dall’autore, a cominciare dal rapporto sociale del teatro con gli spettatori, ben evidente nel titolo scelto allora.
C’è in effetti un duplice registro nella scrittura di Pagliarani, in questa scrittura di servizio – e vanno benissimo insieme. Da un lato l’aspetto professionale, per così dire, leggibile già nei testi più teorici posti a introduzione. Il dovere del critico, figura ancora esistente in quegli anni. Che Pagliarani riassume nella parola «verifica» (verifica della coerenza delle intenzioni, verifica della consapevolezza della situazione in cui si opera…), cruciale di fronte a un esplodere disordinato di «avanguardie» spesso pasticcione. Dall’altro lato c’è la libertà linguistica che sa di doversi permettere, il piacere del testo che trasmette al lettore. Fino a farci sospettare che non possa esistere critica senza un po’ di poesia.

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