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Dal frigo alla spazzatura, il boom dello spreco di cibo

Dal frigo alla spazzatura, il boom dello spreco di cibo

Rifiuti Solo lo spreco domestico di cibo in Italia vale 7 miliardi di euro. Aggiungendo gli altri anelli della filiera alimentare (agricoltura, industria e distribuzione) si arriva a una cifra che supera i 13 miliardi - quasi un punto di Pil

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 8 febbraio 2024

Le fasce della popolazione italiana con i redditi più bassi sprecano di più, mangiano male e soffrono delle patologie che derivano dalla malnutrizione: un quadro in progressivo peggioramento rispetto al 2023. Questo è quanto emerge, fra le altre indicazioni, dal Caso Italia del Rapporto curato dall’Osservatorio internazionale Waste Watcher su cibo e sostenibilità, presentato a Roma in occasione dell’XI Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare il 5 febbraio scorso.

Il Rapporto, promosso e curato dalla Campagna Spreco Zero di Last Minute Market, dal Dipartimento di Scienze e Tecnologie agroalimentari dell’Università di Bologna con IPSOS, nella prima rilevazione 2024 dedicata all’Italia si concentra su alcuni punti chiave: le abitudini alimentari (la dieta degli italiani); lo spreco alimentare domestico: cosa, quanto e perché; le strategie per ridurre gli sprechi; l’impatto sulle famiglie della contrazione del potere d’acquisto; l’inflazione e le scelte alimentari: l’influenza del caro prezzi sui consumi e le previsioni per il futuro; l’insicurezza alimentare; l’impatto sui canali di acquisto e di consumo; lo spreco nel settore della ristorazione e del commercio.
Qui richiameremo alcuni punti del rapporto (una sintesi sarà disponibile sul sito www.sprecozero.it).

Solo lo spreco domestico in Italia vale 7, miliardi di Euro. Ma se a questa cifra ci aggiungiamo ciò che si perde negli altri anelli della filiera agroalimentare – agricoltura, industria, distribuzione – raggiungiamo oltre 13 miliardi di Euro, un po’ meno di un punto percentuale del Pil italiano. E non abbiamo contato il costo dello smaltimento dei rifiuti alimentari e neppure il valore del capitale naturale – suolo, acqua, energia – utilizzato per produrre gli alimenti.

ENTRIAMO IN QUALCHE DETTAGLIO. Nel 2024 lo spreco alimentare nelle famiglie italiane ha registrato un incremento dell’8% nella quantità pro-capite settimanale: 566,3 g. La rilevazione al «grammo» è importante perché è la somma degli alimenti che ancora buoni finiscono nella spazzatura: frutta fresca (25,4 g), cipolle, aglio e tuberi (20,1 g), pane fresco (20,1 g), insalate (18,5 g), verdure (18,2 g). Si tratta però di una buona fetta di una dieta sana e sostenibile che finisce nella spazzatura.

L’ANALISI GEOGRAFICA MOSTRA IL SUD ancora al primo posto per spreco: +4% rispetto alla media nazionale (591,6 g) con uno spreco di sughi, cibi precotti e cioccolate decisamente sopra la media. Mentre si spreca di più nelle grandi città (+8%) e nelle coppie senza figli (+3%). Soprattutto la fotografia nazionale evidenzia come rispetto alla media nazionale il ceto medio basso (+ 17%) e il ceto popolare (+7% ) siano le fasce di popolazione che più delle altre sprecano: acquisti alimentari di più bassa qualità comportano sprechi maggiori.

I DATI RIVELANO ANCHE UNA SITUAZIONE assai negativa rispetto alle scelte di consumo alimentare con i ceti più poveri che riducono la qualità e la diversità della dieta sentendo maggiormente il peso dell’inflazione alimentare. Le categorie di prodotti sacrificati includono piatti pronti, snack e merendine, concentrando i propri acquisti su pane, pasta e latte, quindi tagliando i cosiddetti cibi «comodi» per tornare ad un’alimentazione più essenziale.

NON SAREBBE UNA BRUTTA NOTIZIA, se non fosse però che nel contesto del ceto popolare si osserva come detto uno spreco maggiore. I prodotti più sprecati in questa categoria registrano aumenti significativi rispetto alla media nazionale, tra cui insalate (+25%), salse (+24%), pizza (+24%), maionese (+24%), e pasta cruda (+21%). Questo incremento è associato principalmente alla riduzione del budget per la spesa alimentare. La scelta di prodotti di qualità inferiore, più inclini al deterioramento precoce, è una risposta alla pressione economica, contribuendo così all’aumento dello spreco. Allo stesso tempo, la difficoltà nel gestire alimenti come insalate e salse riflette una combinazione di fattori, tra cui la mancanza di informazioni sulla conservazione e l’accessibilità economica a soluzioni di conservazione adeguate (in primis il frigorifero).

I DATI INDICANO CHIARAMENTE che i ceti meno abbienti, colpiti in modo più acuto dall’aumento dei prezzi alimentari, sono costretti a compiere compromessi sostanziali nella sua dieta. Il 44% in più della media si orienta verso l’acquisto di prodotti prossimi alla scadenza e cerca le promozioni, mentre il 41% in più si rivolge al discount, riflettendo la necessità di acquisire prodotti di qualità inferiore per far fronte ai crescenti costi. Ciò spiega anche il maggiore spreco fatto registrare, visto che acquistando alimenti con una «vita più breve» diventa più alta la probabilità di poterlo sprecare.

INSOMMA, LA TENDENZA GIA’ RILEVATA dall’Osservatorio Waste Watcher nel 2023 – quando emergeva chiaramente che, rispetto alle fasce più abbienti, i poveri mangiano peggio, sprecano di più, e soffrono delle patologie legate a una dieta alimentare di bassa qualità con i relativi costi sanitari – non solo si conferma ma si precisa ulteriormente. Nel senso che la platea di poveri alimentari, quella rilevata dalle statistiche Istat che misurano una soglia economica di povertà assoluta e relativa, non tengono conto di situazioni dove il reddito pro-capite è relativamente alto ma il costo della vita – mutuo, alimenti per il coniuge separato, inflazione alimentare… – rendono più poveri anche i ceti relativamente abbienti. Invece la metodologia Waste Watcher riesce a cogliere, attraverso l’autopercezione, questi aspetti. Altrimenti detto i 5,7 poveri assoluti e relativi rispetto all’alimentazione sono sicuramente sottostimati.

IN QUESTO QUADRO, QUI SOLO ACCENNATO, il disinteresse della politica è assai evidente: la povertà alimentare, con i suoi effetti negativi, non è solo in crescita come numeri ma ormai va considerata come strutturale. Infatti la povertà, ma in fondo anche la ricchezza, pur nella sua aggettivazione multidimensionale – alimentare, educativa, economica, sociale, culturale – dovrebbe essere una condizione umana temporanea. In realtà però si tratta, spesso, di una condizione che diventa permanente e dalla quale è sempre più difficile uscire. E’ una trappola, ed è facile rimanerci chiusi per sempre.

NEL CAMPO DELLA POVERTÀ alimentare finora gli interventi del Governo hanno elargito (pochi) fondi per un sollievo temporaneo: il reddito alimentare e la social card «dedicata a te» non incidono assolutamente su una questione che peraltro non si risolve soltanto con la soddisfazione di un bisogno materiale – mangiare – e un intervento economico emergenziale. Un passo avanti, sia culturalmente che praticamente, sarebbe almeno il riconoscimento di un vero e proprio diritto al cibo (ius cibi). Ovvero il diritto a un’alimentazione adeguata, sufficiente, nutriente, compatibile culturalmente. Diritto di fatto negato, sia ai poveri ma anche ai ricchi.

* professore di economia circolare e politiche per lo sviluppo sostenibile, Università di Bologna e direttore scientifico Osservatorio internazionale Waste Watcher-Campagna Spreco Zero

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