Dal Fmi 17 miliardi per il default di Kiev
Ucraina Dietro i colloqui di Minsk, il caro costo sociale del «soccorso»
Ucraina Dietro i colloqui di Minsk, il caro costo sociale del «soccorso»
A ben vedere l’interesse a una soluzione catastrofica – umanitaria e strutturale – della crisi ucraina, è mostrato proprio da chi dice di voler sostenere il paese, con armamento letale contro la presunta aggressione del vicino orientale. Chi è dunque interessato al crollo dell’Ucraina e alla riconquista delle posizioni in Europa?
Per il ministro delle finanze russo Anton Siluanov, lo scorso gennaio l’Ucraina si è rivolta a Mosca per la ristrutturazione del debito. Mosca non si è detta pronta: «Al momento, non ci troviamo nella situazione in cui potremmo facilmente rinunciare a tali obbligazioni. Il ritorno delle nostre risorse, a suo tempo depositate in obbligazioni ucraine, è per noi molto importante». L’accordo, sottoscritto dalla Russia nel dicembre 2013 con il deposto Presidente Viktor Janukovic, per un credito di 3 miliardi di dollari tramite l’acquisto di obbligazioni ucraine, proibiva a Kiev di allargare il proprio debito oltre il 60% del PIL, limite che però è stato superato già nello scorso autunno. La Russia avrebbe quindi il diritto di chiedere il pagamento del debito; se lo facesse, per Kiev sarebbe il default. Ma Mosca ha detto più volte di non volerlo fare: probabilmente, anche per interessi economici propri, che spingono il Cremlino ad agire con una certa dose di pragmatismo nei confronti del Presidente Poroshenko.
Le riserve valutarie della banca di Ucraina, che un anno fa erano di 20 miliardi di dollari (con un debito pubblico di circa 1/3 del PIL) ammontano ora a 8 miliardi di dollari. Il debito da saldare quest’anno supera i 10 miliardi di dollari: il pagamento dei debiti al Fmi, la caduta della grivna e del Pil, hanno portato il paese sull’orlo della catastrofe. La Russkaja pravda scriveva che quella che grava sull’Ucraina «non è una minaccia di default: il default è semplicemente inevitabile». Solo nei primi cinque mesi del 2014 il deficit economico era stato di 17 miliardi di dollari. Dopo l’inizio della guerra si può parlare di un deficit di oltre 40 miliardi (1/3 del PIL). Se intorno a marzo-aprile il PIL aveva registrato un -3%, e a inizio estate un -6,5%, successivamente gli analisti più cauti parlano di un -15 o 20% e i più pessimisti di un -30%.
In questa situazione, si diceva che il Fmi fosse in dubbio se continuare a sostenere Kiev. Dopo oltre un mese di trattative col governo ucraino, giovedì scorso («casualmente», nel giorno dei negoziati di Minsk) Christine Lagarde (Fmi) ha promesso la concessione a Kiev di un credito di 40 miliardi di dollari in quattro anni, che potrebbe scaturire da ulteriori crediti – il programma originale, adottato nell’aprile 2014, prevedeva 16,6 miliardi in due anni – concessi anche da Ue, Usa, Polonia, Germania, Giappone e «investitori privati». La decisione finale del FMI è attesa per fine mese. Naturalmente, a condizione che Kiev vada avanti con le «riforme». Per la russa RT, in base al memorandum sottoscritto tra governo ucraino e Fmi, per ricevere gli aiuti Kiev dovrà tagliare circa 230mila posti di lavoro pubblici, innalzare l’età pensionabile e aumentare il prezzo del gas di 5-6 volte. Quindi, nuove tasse e aumento delle attuali; minaccia di non pagare gli stipendi; aumento della disoccupazione, con oltre la metà delle imprese che già a fine 2014 era in perdita. Senza dimenticare che la fetta maggiore dell’industria ha sede nelle regioni di Donetsk e Lugansk e solo in poca misura in quelle controllate da Kiev di Zaporozhe, Dnepropetrovsk e Kharkov.
In ogni caso, le previsioni sono di una caduta economica dal 20 al 30%. A questo punto, la definizione dello status giuridico del Donbass diventa per Kiev questione di vita o di morte, dato che, tolta la fonte principale, cioè l’export della produzione del Donbass, altre entrate in valuta per Kiev sono praticamente nulle. Mancando di valuta, se Kiev cessa di pagare i debiti, sarà poi sempre più difficile contare su nuovi crediti e conseguentemente poter procedere a quelle importazioni necessarie al funzionamento anche di quei pochi settori economici rimasti attivi. I problemi si ripercuoteranno poi anche sugli investitori stranieri e, tra questi, sulla Russia, specialmente per il settore energetico: chi pagherà il gas che attraversa l’Ucraina? E se ci saranno problemi per il transito del gas verso l’Europa, sarà un asso nella manica per gli esportatori di gas di scisto americano.
Il cerchio sembra magicamente chiuso: attraverso Kiev, stringere il cappio intorno al collo di Mosca con la stessa corda con cui si tiene legata l’Europa. La Ue è disposta a correre il rischio?
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