Dall’8 giugno al 22 agosto, il Centro Pompidou di Parigi dedica una mostra a tre artisti portoghesi: Pedro Costa, Rui Chafes e Paulo Nozolino. Si entra nello spazio espositivo con in testa l’enigma del titolo preso in prestito da un verso del poeta Fernando Pessoa, Le reste est ombre, il resto è ombra. Nella calura della Parigi dell’antropocene, che questa città con poco verde non si è ancora abituata a gestire, ogni promessa d’un riparo dal sole è certo benvenuta. Ma a cosa fa allusione il «resto»? Di che cosa l’ombra è l’eccedente? Cosa c’è prima dell’ombra? Ovviamente, la mostra stessa. Ovvero l’incontro di tre arti, un tempo moderne e che oggi ci appaiono antiche, quasi dei fossili: la fotografia (Nozolino), la scultura (Chafes), il cinema (Costa). L’oggetto della mostra, in questo senso, è la mostra stessa.
Come solito al Pompidou, lo spazio espositivo non è molto esteso. Ma gli organizzatori lo hanno sistemato in modo da creare una sorta di percorso labirintico. Nella nostra esperienza ordinaria diciamo che l’ombra non esiste, che essa è solo l’assenza di luce. La mostra tende a ribaltare questo punto di vista. È come se, al contrario, le opere fossero create a partire dell’oscurità o dalla semi-oscurità degli spazi che le ospitano. Come se l’oscurità fosse la loro origine o in qualche modo la materia da cui emergono. In questo, il cinema è forse l’arte più strutturante delle tre, nel senso che anche la fotografia e la scultura, in queste sale oscure, somigliano a loro volta a delle proiezioni. Un’unità trovata nella complicità di artisti che appartengono alla stessa generazione

L’IMPRESSIONE è quella di entrare in una casa mediterranea in un giorno d’estate. Le persiane sono chiuse per lottare contro la calura, e lasciano solo trasparire qualche raggio di luce. Ora, nonostante l’astrattezza degli ambienti, non è un luogo qualunque dell’area mediterranea quello in cui entriamo. Chi ha visto anche uno solo dei film di Pedro Costa, è subito raggiunto dall’impressione di immergersi nell’oscurità del quartiere di Fontainhas dove è nata una delle più straordinarie cinematografie contemporanee, e di cui l’ultimo capitolo, Vitalina Varela, è appena uscito nelle sale parigine. A quest’opera, parallelamente alla mostra, la galleria Jeu de Paume dedica una retrospettiva integrale di grande importanza.
Idealmente, bisognerebbe entrare da lì, e dal film Ossos (1997), dove un Pedro Costa ancora legato al cinema indipendente d’autore filma le erranze, per lo più notturne, di una giovane coppia. Durante la lavorazione, Costa si accorge che il quartiere sotto-proletario di Fontainhas gli resiste. I camion della produzione sono troppo grandi per entrare nelle vie tra le baracche. Le luci, il materiale, il rumore della lavorazione disturbano gli abitanti, che la mattina si svegliano all’alba per andare a lavorare a Lisbona.

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INVECE di imporsi, Costa comincia a spogliare il proprio set. Alla fine, resta solo la macchina da presa e il suono. Il film è dunque girato nell’ombra. E nell’ombra scura della luce naturale che la pellicola restituisce, appare una fotografia di evidente bellezza e che evoca i maestri della pittura barocca. Nei film successivi, Costa abbandonerà definitivamente la struttura tecnica e produttiva del cinema di finzione d’autore per filmare da solo, con una semplice videocamera digitale. In quel semplice gesto di radicalità e di semplicità, Costa rivoluziona il cinema indipendente. I titoli successivi (No Quarto da Vanda nel 2001, Juvendute em marcha nel 2006) riescono a realizzare una sintesi impossibile tra l’immaginario del cin

Un’immagine da «Casa de lava»

ema classico fordiano (da cui il personaggio del maestoso operaio capoverdiano Ventura sembra provenire) e il cinema sperimentale d’osservazione (e in particolare i film di Andy Warhol). Oggi Fontainhas non esiste più, se non nel cinema di Costa. Nulla resta di quel quartiere, se non la sua ombra cinematografica. Ombra che si allunga sempre di più, film dopo film, in direzione del futuro, ma anche del passato dei personaggi. Attraversare il labirinto della mostra, vuol dire in un certo senso ritornare in quel quartiere che non c’è più. Con la differenza che non sono i personaggi, Ventura o Vanda, ad apparire e a venire verso di noi che guardiamo, ma piuttosto delle opere dei tre artisti in mostra.

I TIRAGGI argentei (bromuro su alluminio) del fotografo Paolo Nozolino schiacciano la prospettiva creando un effetto di appiattimento delle linee di fuga nelle quali è difficile separare l’organico dall’inorganico, il naturale dal manufatto. Le sculture metalliche di Rui Chafes sembrano a loro volta provenire non dalla mano d’un artista che modella una materia, ma piuttosto da una curvatura dello spazio.

Pedro Costa, dal canto suo ha portato una serie di materiali non montati e di immagini inedite del suo immenso archivio.
Ha dichiarato che per lui non si tratta di una mostra o di un’installazione, «ma di cinema, ovvero di un nuovo montaggio di suoni e immagini». Sembra una frase ad effetto. Ma l’effetto è esattamente quello che si prova attraversando la mostra. Con la differenza che l’esperienza dell’installazione non è quella di un film, che si segue, perfino nei racconti epurati di dettagli di Costa, da un punto a ad un punto b. L’intreccio di diversi frammenti (oltre ai già citati, Minino macho, Minino Femea, Sweet Exorcist, As Filhas do fogo) forma una sorta di opera unica all’interno della quale ci si muove come in una piccola città brulicante di suoni (inconfondibili, i martelli pneumatici e i bulldozer di No Quarto da Vanda).
L’unità della mostra è data dalla complicità che esiste tra questi artisti che appartengono ad una generazione che non ha mai smesso di fare i conti con le ombre del passato del Portogallo e il loro perdurare nel presente. Queste ombre non sono però fantasmi del passato. Sono la materia di cui è fatto il nostro mondo.