«Per carità, per amore, per grazia di Dio diciamolo a tutti: fermiamoci, entriamo di notte nel bosco e ascoltiamo». Si concludeva così la raccolta di Stefano Dal Bianco uscita nel 2012, Prove di libertà (Mondadori), con una breve prosa intitolata Essere umani. Ora il nuovo libro di versi del poeta padovano – Paradiso (Garzanti «La biblioteca della spiga», pp. 148, € 19,00) – sembra ripartire grosso modo da qui: mentre fuori tutto accelerava, Dal Bianco si è fermato per dodici anni, tanto è durato il suo silenzio, e ha ascoltato il rumore del tempo e il respiro lentissimo, quasi immobile, della natura che lo circonda, immerso nel paesaggio in cui abita («questa onnipresente permanente vallata»). La cornice, piuttosto essenziale, è quella abbozzata nel risvolto di copertina: «Un uomo se ne va a spasso col suo cane per le strade, i sentieri, i boschi, i campi e lungo il fiume nei pressi di un piccolo borgo nelle colline senesi. Tutti i giorni, per tante stagioni, l’uomo e il cane imparano e scoprono qualcosa». Il libro è diviso in tre parti, con la prima (Appuntamento al buio) a fare da prologo e composta di una dozzina di testi, mentre l’ultima è un congedo affidato a una sola lirica. In mezzo, la sezione eponima – Paradiso – conta un centinaio abbondante di pezzi. Rispetto al già citato Prove di libertà e al più antico e decisivo Ritorno a Planaval (Mondadori, 2001), che mostravano entrambi un’architettura ben più marcata, stavolta l’articolazione in sezioni è appena accennata, quasi inesistente: a dettare il ritmo e la scansione è semplicemente «una vita di stagioni». Il che già suggerisce qualcosa, forse, dell’estrema compattezza dell’insieme, e della capacità di chi ha cucito la raccolta di tenere a bada le proprie eventuali «intenzioni» costruttive, agendo in piena naturalezza: rendendosi cioè disponibile all’immensa varietà di ciò che esiste e rinunciando in partenza a imbrigliarlo in una «storia», in un ordine progressivo e sensato.
Chi scrive è in effetti anzitutto un ricettore di impressioni, una «mente passiva» (o addirittura «spalancata», come nella poesia d’apertura). Un soggetto, certo, ma il più possibile dimentico di sé stesso, «distratto» dal mondo (e distrazione come capacità di ospitare la realtà, di uscire dalle catene del sé, è un’idea molto cara a Dal Bianco, almeno a sfogliare i saggi di poetica consegnati nel 2019 a Distratti dal silenzio. Diario di poesia contemporanea, uscito per Quodlibet). Si potrebbe dire che l’autore di questi versi abbia infine accolto il mondo così com’è («non abbiamo niente da recriminare», si legge in una delle ultime liriche): Paradiso è dunque, alla radice, un implicito inno all’immanenza, nonostante «ciò che lentamente in fondo al bosco / si colora di morte».
Rispetto a Ritorno a Planaval – e proseguendo una strada già ben definita dalla raccolta del 2012 – si annulla definitivamente la presenza della prosa, che in passato si infiltrava invece fra i versi. Allo stesso modo, se in Planaval l’osservazione si rivolgeva volentieri agli spazi domestici e alle adiacenze familiari all’io, in Paradiso il «fuori» è sostanzialmente l’unico, iterato oggetto. La visione è comunque la condizione fondativa di questa scrittura, la misura di «quanto sia vasto lo sguardo di uno / che camminando in cresta di collina / si rivolga alla sfera della luna tra le nuvole». Protagonista è un occhio famelico, capace di registrare le minime variazioni cromatiche («La perfetta visibilità di oggi / si riconosce dalle sagome dei pini / bene individuati in cima al monte / sullo sfondo dell’azzurro / e del grigio delle nuvole da pioggia / che se ne stanno andando senza fretta») e di aprirsi così non solo a ogni dettaglio dell’essere, ma addirittura «all’invisibile del mondo». Del resto, come ha scritto altrove lo stesso Dal Bianco, il discorso in versi è imperniato sulla «facoltà, che solo la poesia ha, di aumentare la nostra capacità di percezione del mondo»: poesia come ultrasensibilità.
Affiancata alla «prospettiva» centrale, c’è poi quella del secondo protagonista del libro, il cane Tito. Il quale è naturalmente una scorta affettiva per l’io, che proprio in relazione a lui si presenta – magari controvoglia – come adulta figura di cura e responsabilità (basti segnalare che l’epigrafe che ne accompagna l’entrata in scena recita, significativamente, «riconoscere un figlio»). Ma c’è di più: l’intervento dell’animale implica anche la possibilità di moltiplicare lo stesso sguardo, di arricchirlo con una prospettiva rasoterra («e Tito fa una certa invidia / perché il suo occhio è all’altezza dell’erba / e non è costretto a dominare niente / mentre il suo amico si fa serio / dall’alto della sua incostante umanità»). Più in generale, il fondale su cui si muovono l’io lirico e il suo fiducioso compagno è la magnifica – e a tratti persino numinosa e inquietante – alterità della natura, della quale si hanno diversi e ripetuti segnali: la «sovranità» della «stagione», la «maestà / del giorno che finisce», il «ruolo del vento», l’«argomento dell’erba» o «la preghiera del castagno tra i castagni». La compresenza fra pensieri e oscillazioni dell’io da una parte e lo splendore tangibile del dato naturale dall’altra è dominata tramite la risorsa più preziosa di questo nostro poeta: la sua straordinaria forza stilistica.
Le poesie di Paradiso sono oggetti levigatissimi, nelle quali il lessico sa muoversi fra la concretezza soprattutto vegetale (un albero non è solo un albero ma più spesso un leccio, un castagno, un acero ecc.) e la pensosa levità dell’astratto (la luce, l’ombra, il buio ma anche l’esistenza o il mistero). Al contempo, alla mimesi del monologo interiore, con le sue incertezze e la sua ruminazione (si vedano snodi o addirittura attacchi come «Il problema che oggi si pone è», «Per quanto sia vero che», «Non si sa se», «ma il vero è che non so ancora se», ecc.) si oppone l’assertività di certe uscite inappellabili («Sono venuto nell’aria ferma / senza farmi illusioni di pace o di guerra», «Questo profumo che oggi è nell’aria / (…) non lascia dubbi», «Nessuno si ricorderà nei prossimi anni», «Sempre la sofferenza si trasforma / in qualcosa di sacro», e così via): uscite per le quali spesso ci si affida alla nettezza, sospensiva e insieme trascinante, dell’avverbio (un solo ma notevole esempio: «Spazza la terra oggi meravigliosamente il vento / e mi porta con sé»). Chi legge è investito da un timbro per così dire incontestabile. A sostenere questa voce ferma, con la sua parabola lunga e avvolgente, è soprattutto la sintassi, capace di chiudersi, perlopiù, in un fascinoso giro a periodo unico: a testimoniare di un sismografo interiore continuamente attivo, eppure precisissimo.
Dal Bianco ha scritto da qualche parte che tutti i poeti veri sono poeti autoritari, ovvero poeti di cui si può avvertire distintamente la voce. È senz’altro vero anche per lui, da tempo attivo in quello che potremmo definire – manomettendo il suo Zanzotto – un vero e proprio «processo di stilizzazione del mondo». Che non vuol dire riduzione o, peggio, semplificazione del reale, al contrario: significa ampiezza e riconoscibilità della rappresentazione. È attraverso lo stile che chi cammina e osserva ha imparato a liberarsi dall’ansia del senso («Trasfórmati in parole luna piena rossa di gennaio / e includi nel racconto il rombo della superstrada / così che tutto sia completo / ma non risponda dei significati»): ha imparato ad amare «la luce del tramonto» pur sapendo che la luce «non ha secondi fini».