Dai paesaggi interiori al deserto ai motel persi nel nulla
Autori americani In forma di romanzo, una immersione senza filtri nel mondo del drammaturgo americano, fatta di frammenti la cui tecnica e ambizione hanno sapore modernista: «Quello di dentro», un erratico percorso del protagonista nei meandri della memoria. Edito da La Nave di Teseo
Autori americani In forma di romanzo, una immersione senza filtri nel mondo del drammaturgo americano, fatta di frammenti la cui tecnica e ambizione hanno sapore modernista: «Quello di dentro», un erratico percorso del protagonista nei meandri della memoria. Edito da La Nave di Teseo
Una immagine, una delle tante che popolano Quello di dentro – il romanzo che Sam Shepard ha scritto negli ultimi mesi di vita, segnati dalla Sla e dal conseguente, progressivo, inevitabile ritrarsi dentro se stesso, dopo un percorso artistico ed esistenziale da autentica rockstar, tra teatro, cinema, letteratura e musica – può aiutarci meglio di tante parole a comprendere il senso più profondo e toccante di questo libro, che ora La Nave di Teseo propone ai lettori italiani come un dono inatteso e prezioso, nella superba traduzione di Massimo Bocchiola (pp. 198, euro 15,30).
Più che di immagine, potremmo parlare di una somma di situazioni, di abbozzi di storie, che si condensano e quasi si raggelano in un gruppo di famiglia. «Vedo due uomini in un ufficio della Casa Bianca; uno alto ed elegante con borsalino scuro e sigaro – l’altro basso, ordinario e stempiato, in completo e panciotto. Siamo un po’ dopo il ’45. Forse proprio nel ’45. Gli sportelli delle bombe dell’Enola Gay si sono già aperti e Little Boy è stato sganciato in silenzio per non essere richiamato mai più. L’era atomica viene al mondo in un fascio accecante di luce bianca. Mio padre e tutti i suoi fratelli, in divisa cachi, attorniano la mia nonna irochese. È la loro ultima occasione per una foto di gruppo. Sorrisi radiosi – le prodezze aeree gonfiano i loro cuori di orgoglio americano. Solo mia nonna tradisce un’ombra di malinconia nelle labbra storte. Sullo sfondo c’è un melo tutto bianco di fiori».
L’esito di un paradosso
C’è un altro Little Boy che è stato sganciato nel mondo, poco prima, più esattamente il 5 novembre del 1943, e richiamarlo indietro si è rivelato altrettanto impossibile: il suo nome era Sam Shepard, e i suoi luoghi di elezione sarebbero stati quegli stessi deserti americani che, a partire dall’inizio degli anni Quaranta, erano stati depositari dei primi esperimenti nucleari.
Di questo sganciamento, e dei suoi molteplici effetti, i quasi cinquant’anni di carriera di Shepard hanno lasciato prove e segni indelebili: il suo teatro, costruito su un miracoloso equilibrismo tra l’aggancio realistico a un West americano fatto di fantasmi più che di sogni e una vocazione «assurdista» e surreale che si incarna in situazioni e dialoghi tra i più esplosivi che la drammaturgia contemporanea ricordi (e in titoli memorabili come Buried Child, True West o Menzogne della mente); i suoi racconti, a metà tra sceneggiatura, cronaca e microdramma, raccolti in libri strepitosi come Il grande sogno e Motel Chronicles (ristampati di recente dal Saggiatore); la sua attività di sceneggiatore prolifico, con punte di assoluto valore come Zabriskie Point o Paris Texas.
La creatività e originalità dello sguardo, la capacità di virare continuamente da pagine di trasognato realismo, nelle quali il paesaggio americano – tra grandi spazi, motel persi nel nulla, terre aspre e polverose – ci viene restituito in tutto il suo fascino e il suo mistero, e dialoghi di puro teatro, nei quali sono le inezie e le incongruenze, ben più delle frasi da centone, a rivelarci la vera natura dei personaggi e la complessità irrisolta dei loro rapporti, trovano tra le pagine di Quello di dentro un’esemplificazione tanto più ammirevole in quanto il libro prende forma da quello che si può definire senza esitazioni un paradosso. Shepard arriva al romanzo, a un’architettura e una costruzione ben più complesse e di più ampio respiro rispetto al suo scarno, ossuto teatro e alla fertile secchezza dei suoi racconti, proprio quando le sue condizioni di salute sembrerebbero rendere l’impresa semplicemente impraticabile. Scrive su bloc notes, poi, quando neanche questo gli è più possibile, opta per la dettatura. Rinuncia quindi a una costruzione di tipo architettonico, e opta per un cumulo di frammenti interconnessi, brevi, fantasmatici, lasciando che sia la forza poetica del protagonista, il suo erratico percorso nei meandri di una memoria sempre più fragile, a fungere da filo conduttore del libro.
Una introduzione di Patti Smith
Dire di cosa parli Quello di dentro rappresenta, almeno in senso canonico, un’impresa proibitiva. Ha tentato di farlo, nella bellissima introduzione al romanzo, Patti Smith, alternando alle sue riflessioni sulla natura dell’opera un ritratto commosso di Shepard nei suoi ultimi giorni. «Il manoscritto davanti a me», scrive tra l’altro, «è una bussola oscura. Tutti i punti partono dal suo Nord magnetico – il paesaggio intimo del narratore. Ho continuato a leggerlo per tutto il pomeriggio, senza riuscire a smettere, alla ricerca di una rotta in quel mosaico di dialoghi echeggianti, prospettive sfalsate, lucidi ricordi e impressioni allucinatorie». Al centro di questo mosaico, la voce narrante di un attore e regista che «si sveglia nel mezzo di una brusca metamorfosi» e si lascia andare al flusso di una memoria in cui persone e immagini si sovrappongono a lungo, per poi stagliarsi nella loro piena evidenza: dal padre alla sua giovane amante, Felicity; dalla Ricattatrice, una donna giovane, invadente, determinata ad affermarsi come artista, alla ex moglie, cui è stato legato per più di trent’anni ma con la quale ritrovarsi e pacificarsi risulta ogni volta impossibile. Ognuno di questi personaggi è dotato di una sua evidenza, e si staglia al centro di uno o più frammenti del romanzo, imponendo la propria presenza con una sorta di ferocia. Ma ha ragione Patti Smith quando afferma che il centro del libro è «l’oscillante focalizzazione del narratore. Viaggiamo tra le spire della sua mente prismatica, del suo cuore stanco, attraverso non una confessione, ma una sincerità potente, un incanto di distacco e indifferenza».
Privato di qualunque coordinata spazio-temporale e di qualunque illusione di intreccio, il lettore di Quello di dentro è chiamato a procedere per altre vie, accettando il paradosso di una bussola oscura quanto presente. La ricompensa che lo attende è l’immersione forse più completa, sincera e senza filtri nel mondo di Sam Shepard; un’odissea di frammenti quasi modernista nella sua ambizione e nella sua tecnica, che un critico raramente tenero come Michiko Kakutani, sul New York Times, si è spinta a paragonare a un capolavoro del cinema come 8 e mezzo di Fellini. Accostamento tutt’altro che peregrino, perché c’è davvero qualcosa di felliniano nella convergenza tra reale, surreale e immaginifico che Shepard persegue e spesso riesce a condurre a buon fine.
Con non minore acume, sulla New York Times Book Review, Molly Haskell ha sottolineato come Quello di dentro sia in fondo l’ultimo, magnifico capitolo del flusso di coscienza autobiografico che scorre in buona parte del teatro di Shepard, e che mette in scena i dilemmi e la crisi della mascolinità, la brutalità del conflitto generazionale tra padri e figli, l’incontro-scontro con donne ora forti e manipolatrici, ora tenere e materne. Ben lungi dunque dal ridursi alla testimonianza toccante di una lunga battaglia tra la malattia e un impulso creativo che non vuol spegnersi, il romanzo postumo di Shepard rischia di essere l’ultima, possibile sintesi della sua arte sottile e muscolare insieme, e un libro destinato a restare.
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