A Socrate che gli chiedeva cosa fosse per lui la scienza (epistéme) il giovane Teeteto, nell’omonimo dialogo platonico, rispose che non solo la geometria o l’aritmetica lo erano, ma anche tutti i saperi artigianali. E fra questi citò per primo quello del calzolaio.
Con una simile patente di nobiltà, c’è da stupirsi se alla calceologia (così si chiama lo studio delle calzature antiche) è dedicata oggi una mostra nel prestigioso Museo della Moda e del Costume di Palazzo Pitti a Firenze? Piuttosto sarebbe da chiedersi perché niente del genere sia mai stato fatto prima.
Va dato perciò atto ai curatori Lorenza Camin, Caterina Chiarelli e Fabrizio Paolucci di avere avuto un’idea originale e di aver saputo tradurla in un progetto espositivo tanto rigoroso quanto intrigante. La mostra Ai piedi degli dei. L’arte della calzatura tra antica Roma, cinema colossal e moda contemporanea (catalogo edito dalla livornese Sillabe, pp. 276, e 27,00), che sarà visitabile fino al 19 aprile 2020, riunisce un’ottantina di opere. Si tratta in buona parte di monumenti (statue, rilievi, vasi dipinti), provenienti da importanti musei – tra cui i Capitolini, i Vaticani, il Louvre – che riproducono nel marmo, nel bronzo o in ceramica calzature di varie epoche e fogge. Non mancano però autentiche calzature antiche, provenienti dal sito di Vindolanda, un fortino romano nei pressi del Vallo di Adriano, in Gran Bretagna, dove grazie a particolari condizioni atmosferiche e del terreno sono state ritrovate migliaia di scarpe di cuoio eccezionalmente ben conservate. Sono esposti anche rilievi relativi a calzolai (uno a una calzolaia) romani che vollero lasciare memoria della loro professione (e delle loro possibilità economiche) nei propri monumenti funerari. Un saggio in catalogo è dedicato alla tomba di un calzolaio trovata nel 1997 in quel di Nocera Superiore: un monumento di notevole prestigio, decorato all’interno da una pittura che mostra il defunto seduto al suo banchetto, intento a lavorare delle tomaie. Al centro della composizione troneggia un mobile sul quale sono collocati, su due diversi registri, sei paia di calzature, di un’unica forma a gambaletto chiuso, forse l’articolo di maggior successo di questo artigiano, che aveva evidentemente raggiunto una certa agiatezza. Del resto, che il mestiere potesse essere redditizio ce lo conferma il poeta satirico Marziale: in un suo epigramma si rammarica infatti che i suoi genitori l’abbiano fatto studiare, mentre un calzolaio di sua conoscenza, che aveva cominciato «a tirare coi denti vecchie pelli» e a lavorare «suole logore e fradice per il fango» ora guadagna somme che chi scrive libri neanche si sogna.

Caligola ossia «Scarponcino»
Le scarpe, si sa, dicono tanto sulla persona che le indossa: Alberto Savinio le chiamava addirittura «lo specchio dell’anima», ma anche nel film Forrest Gump – una clip del quale figura nell’installazione ideata e diretta da Gianmarco D’Agostino (Advaita Film) – il protagonista cita una frase della madre che testimonia l’antica saggezza popolare: «dalle scarpe si capiscono molte cose».
La cosa vale per tutte le epoche e tutte le società, ma si attaglia in modo particolare al mondo greco e romano, nel quale le calzature, oltre a rispondere a criteri di funzionalità, costituivano un codice semiotico che forniva precise informazioni sullo status dei proprietari. Le caligae, ad esempio, erano scarponi a suola chiodata tipici dei soldati (Caligola, ossia ‘Scarponcino’, fu il soprannome che i legionari diedero affettuosamente al futuro imperatore che da bambino girava con queste calzature per gli accampamenti a fianco del padre, il generale Germanico). I calcei invece erano stivaletti chiusi che arrivano al polpaccio. Erano usati dalle classi più elevate, in abbinamento con la toga, l’abito tradizionale del cittadino romano. Erano vietati invece ai non-cittadini e agli schiavi. La presenza di una fibbia d’avorio a forma di mezzaluna, il cui uso si faceva risalire allo stesso Romolo, denotava l’appartenenza a una famiglia dell’antico patriziato. È probabile che calcei di diverso colore distinguessero le cariche più importanti (pretore, console e censore). Esisteva anche il calceus femminile, ma era solo uno fra gli innumerevoli tipi di calzature sfoggiate dalle donne.
Il dotto padre della Chiesa Clemente Alessandrino ha trovato modo, tra una disputa teologica e l’altra, di informarci che le prostitute indossavano dei sandali che sulla suola avevano dei chiodini disposti in maniera da lasciare un’impronta con la scritta ‘seguimi’. E la curiosa notizia ci è confermata da un reperto esposto in mostra: una lucerna di provenienza egiziana a forma di scarpetta reca appunto sulla suola le lettere greche che formano la parola akolouth(e), ovvero ‘seguimi’.
Le scarpe sono da sempre strumento di seduzione, non dovevamo aspettare Louboutin o Prada per accorgercene. La Lisistrata di Aristofane indicava in un certo tipo di scarpette uno strumento capace di accendere il desiderio negli uomini ateniesi e convincerli a fare l’amore e non la guerra. Non tutti sanno, poi, che una favola antica, raccontataci da Claudio Eliano (200 d.C. circa), anticipa in modo sorprendente la storia di Cenerentola: l’avvenente Rodopi (‘Guance di rosa’) era una bellissima schiava che subiva ogni sorta di maltrattamenti da parte delle altre schiave in casa di un ricco egiziano. Un giorno il faraone Amasi diede una splendida festa, ma Rodopi, sovraccaricata di lavoro a bella posta dalle compagne invidiose, non poté andarvi. Ma mentre era al fiume a fare il bucato, un’aquila prese uno dei sandali che aveva lasciati sulla riva e lo fece cadere in grembo al faraone nel bel mezzo della festa. «Egli, meravigliato per le armoniose proporzioni del sandalo e la grazia della sua fattura… diede ordine di ricercare per tutto l’Egitto la donna a cui apparteneva quel calzare, e quando la trovò, la prese in moglie».
Tra scarpe e nozze, in effetti, c’era un legame stretto. Un particolare tipo di calzari, le nymphídes, venivano allacciati ai piedi della sposa la mattina delle nozze, per simboleggiare il suo status di nymphé, quello della transizione da vergine (parthénos) a moglie (gyné), ed erano tolti al momento di unirsi allo sposo.

La fortuna nel cinema e nella moda
Insomma, come efficacemente sintetizza il curatore Paolucci, del Dipartimento di Antichità Classica delle Gallerie degli Uffizi, «non si indossavano scarpe qualsiasi in qualsiasi momento della vita. Ogni scarpa aveva un significato (…), simboli e allegorie le rendevano, più che un accessorio, un protagonista del vestiario dell’antichità (…); si tratta di oggetti che nei musei da cui provengono passano inosservati. Qui, invece, sono inseriti in un percorso narrativo ed ideologico ben chiaro, dove recuperano la loro centralità culturale e simbolica». Eike Schmidt, che degli Uffizi è il direttore, aggiunge: «Proprio per illustrare compiutamente questo ‘destino’ della calzatura, i cui presupposti sono già nel mondo greco-romano, si è voluto allargare il tema di questa mostra a due espressioni della cultura contemporanea intimamente legate fra di loro: il cinema e la moda. Sotto il segno della classicità, i curatori hanno esplorato questo inedito aspetto della ‘Fortuna dell’Antico’, recuperando suggestioni, echi e consonanze…».
Il visitatore avrà quindi modo di ammirare le calzature indossate dalle star nei grandi film peplum (non a caso chiamati popolarmente sandaloni): le scarpe di Robert Taylor e Peter Ustinov in Quo vadis, i sandali di Liz Taylor in Cleopatra, i calzari di Charlton Heston in Ben Hur, gli stivaletti di Russell Crowe nel Gladiatore, e quelli di Colin Farrell in Alexander: oggetti di raffinata eleganza realizzati dalla più celebre manifattura italiana di calzature per il cinema, il glorioso Calzaturificio Pompei, fondato nel 1937, lo stesso anno dell’apertura di Cinecittà. Dai piedi degli dèi, dunque, ai piedi dei divi.
Di grande interesse anche la sezione dedicata alle calzature antiche come fonte di ispirazione dei grandi stilisti del Novecento. Le interpretazioni che ne hanno fatto Salvatore Ferragamo, Emilio Pucci, Yves Saint Laurent, Genny, Céline, Richard Tyler e altri stanno a dimostrare quale significativo impatto ha avuto la moda antica sul fashion contemporaneo. E potrebbero, perché no?, essere un commento appropriato a un famoso verso di Keats: A thing of beauty is a joy forever.