Quando l’anti-eroe di Voltaire, Candide, incontra nella colonia olandese del Suriname uno schiavo privo di due arti e lo interroga, con assoluta ingenuità, sui motivi della sua misera condizione, il malcapitato risponde con la celebre frase, assunta ad autocoscienza europea: «quando lavoriamo negli zuccherifici, e la macina ci afferra un dito, ci tagliano la mano; quando tentiamo di fuggire ci tagliano una gamba: a me sono capitati entrambi i casi. È a questo prezzo che mangiate zucchero in Europa».

Al valore, reale e simbolico, di questo dolcificante e alla sua ricaduta sulla vita dei produttori e dei consumatori occidentali, è dedicato l’ultimo libro dello studioso olandese di storia globale Ulbe Bosma, Il mondo dello zucchero Come le cose dolci hanno trasformato la nostra salute e il pianeta (traduzione di Valentina Palombi, Einaudi, pp. 536, € 34,00).

Il termine sanscrito sakkara, letteralmente «granuli», in uso dal 500 avanti Cristo, indica che la trasformazione in cristalli granulati era già allora conosciuta. Dalle prime coltivazioni in India e Cina passando per la Persia, la Mesopotamia e l’Egitto, la produzione saccarifera avrebbe guadagnato l’Europa grazie alle tecnologie che gli arabi vi avevano introdotto nel corso del medioevo.

I resoconti di viaggio di Marco Polo e del suo omologo berbero Ibn Battuta rivelano l’esistenza di un fiorente mercato asiatico dove la domanda di zucchero era pressoché inarrestabile, mentre l’Europa lo avrebbe conosciuto solo molto più tardi.
Fu o dopo il crollo della produzione egiziana nel XV secolo che si verificò quello che il sociologo e geografo marxista David Harvey chiama lo spatial fix, il riassetto spaziale: la rotta dello zucchero per rifornire l’Europa si spostò verso quella atlantica trovando nell’isola di Hispaniola un luogo ideale per la diffusione della canna, a detta di Cristoforo Colombo, più grande e dolce di quella siciliana e andalusa. Spettò ai portoghesi portare in Brasile quello zucchero che si sarebbe via via diffuso non solo nei territori coloniali caraibici e atlantici, ma, all’inizio del XVIII secolo, a Taiwan – una delle più importanti frontiere economiche nel mondo preindustriale: dal Seicento, infatti, la Compagnia olandese delle Indie orientali aveva stabilito la sua sede in quest’isola fertile e poco popolata, inserendovi la coltivazione della canna da zucchero e attraendo manodopera cinese esperta nella sua lavorazione.

Se fino al medioevo lo zucchero, in special modo quello bianco e cristallino, era un prodotto riservato alle élite, dalla fine del Quattrocento diventa un bene utilizzato non solo come dolcificante ma come medicinale con versatili virtù terapeutiche. Certo, ancora nel Settecento lo zucchero bianco raffinato era un bene di lusso prodotto in piccoli quantitativi mediante un lungo e costoso processo artigianale, mentre, la rivoluzione industriale e il contemporaneo sviluppo del lavoro salariato e di quello schiavista (due fenomeni non incompatibili, anzi funzionali l’uno all’altro) permisero enormi passi avanti nella trasformazione, in tempi relativamente brevi, di enormi quantità di canna o barbabietola in candidi cristalli di zucchero.

Da merce per l’aristocrazia fino a prodotto di massa di uso quotidiano, questo dolcificante – insieme ad altre commodities quali tabacco, cacao, cotone, caffè – ha plasmato il mondo in cui viviamo. Modello sia di produzione (a condizioni lavorative massacranti nei campi e in fabbrica che continuano fino al XXI secolo), sia di consumo, il suo successo procede parallelo all’affermarsi del capitalismo, che anche in questo caso mostra il suo lato oscuro: al progresso economico si affiancano sfruttamento, razzismo, schiavitù, oltre che devastazione ambientale.

L’industria saccarifera – scrive Bosma – rappresenta perfettamente le due facce del capitalismo: progressivo e innovativo da un lato, indifferente alle conseguenze sociali ed ecologiche delle proprie attività dall’altro. Nel 1848, quando metà dello zucchero prodotto e consumato nel mondo era frutto del lavoro di persone ridotte in schiavitù, il grande caricaturista Honoré Daumier, nel ritrarre un avvocato abolizionista alla tribuna, lo rappresenta mentre rifiuta sdegnosamente un bicchiere d’acqua con una zolletta di zucchero, simbolo per eccellenza di sfruttamento. Sembra che oggi, per i tagliatori di canna, le cose non siano cambiate poi molto: l’autore ricorda due scioccanti documentari del 2007, Price of Sugar e The Sugar Babies, che mostrano le inumane condizioni di vita dei lavoratori delle piantagioni della Repubblica Domenicana (se esteso ad altre latitudini, il quadro non cambia), trattati in maniera peggiore dei buoi.

Solida analisi storia e socio-economica di un mondo in smanioso cambiamento fatto di merci, prodotti, scambi, guerre, rivolte, lussi e miserie, il libro di Bosma è attraversato da personaggi che potrebbero animare la polifonia di un romanzo: scienziati, inventori, capitani d’industria, piccoli produttori, viaggiatori, migranti, avventurieri, schiavi, proletari, schiavisti e abolizionisti, tutti in orbita intorno al mondo dello zucchero.