I guai giudiziari dell’Ilva non riguardano solo l’Italia. E questo non tanto per la fuga all’estero di personaggi della famiglia Riva, proprietaria, come è noto, della più grande acciaieria europea, ma perché questa volta è finito nel mirino di un’azione legale il carbone estratto negli Stati Uniti ed esportato con i sussidi del governo americano in mezzo mondo, inclusi per l’appunto agli stabilimenti Ilva di Taranto. Diversi gruppi ambientalisti statunitensi, tra cui Friends of the Earth, Pacific Environment e Sierra Club, hanno intentato un caso legale in una corte federale. L’accusa contro il governo è quella di non aver tenuto in debito conto gli effetti inquinanti sull’acqua e sull’aria dell’estrazione e del trasporto del carbone, visto che lo stesso esecutivo a stelle e strisce ha aiutato finanziariamente un’impresa esportatrice senza effettuare adeguate valutazioni di impatto ambientale, violando quindi la relativa normativa federale.
Così come le attività dell’acciaieria italiana hanno da sempre sollevato le proteste della cittadinanza per le pesanti conseguenze sulla salute, al punto che lo scorso anno l’intervento della magistratura ha prodotto una lunga chiusura forzata dell’impianto portando la questione all’attenzione della politica nazionale ed europea, negli ultimi dieci anni anche l’estrazione di carbone nei monti Appalachi degli Stati Uniti ha generato devastanti impatti ambientali e sociali. Si chiama mountain top removal, ossia rimozione della cima dei monti, una tecnica faraonica che distrugge letteralmente alcune delle più antiche e storiche montagne americane sulla dorsale orientale pur di liberare l’accesso a nuovi filoni di carbone da estrarre. La società Xcoal Energy & Resources, così come altre specializzate nella estrazione di carbone con questa nuova tecnica, negli ultimi anni ha aumentato significativamente il suo business, sollevando l’opposizione determinata delle comunità locali dei monti Appalachi. Da sottolineare che nello stesso periodo il consumo di carbone negli Usa è diminuito e quindi gran parte del surplus di produzione è finito all’estero.
In particolare una bella fetta del carbone degli Appalachi viene spedito verso i porti di Baltimora e Norfolk, sulla costa orientale, per poi essere imbarcato ed esportato verso Giappone, Corea del Sud, Cina e Italia, in particolare a Taranto, secondo un accordo stipulato nell’ottobre 2011. Gli ambientalisti denunciano come anche il trattamento del carbone nei porti comporti pesanti ricadute sull’ambiente e sulla salute dei lavoratori e dei cittadini. Una questione ben nota a chi vive a Taranto e nei dintorni del mega polo industriale del Sud Italia.
In uno storico discorso alla fine di giugno, il Presidente Barack Obama in persona aveva reso pubblica la nuova politica contro i cambiamenti climatici del governo Usa, mirata a ridurre la produzione elettrica bruciando il carbone ed eliminando il sostegno pubblico statunitense per nuovi impianti a carbone all’estero. Ottimo impegno, salutato come una svolta da parte della comunità ambientalista a stelle e strisce. Però quello che è emerso è che la potente EximBank americana – l’equivalente della Sace italiana – specializzata in concessione di finanziamenti e garanzie per le imprese statunitensi che esportano nel mondo, nel maggio 2012 aveva accordato una polizza assicurativa di 90 milioni di dollari a vantaggio della Xcoal, che ha reso possibile alla società di raggranellare sul mercato un ulteriore miliardo di dollari. Un sussidio non da poco la copertura del governo americano, che di fatto si è reso complice dell’export di carbone nel mondo, anche a Taranto, e quindi di aumentare l’inquinamento di acqua ed aria su suolo americano e di favorire i cambiamenti climatici nel mondo.
Nel dettaglio l’accusa contenuta nella querela di parte delle organizzazioni ambientaliste americane è quella di infrangere gli impegni ambientali vincolanti presi dall’amministrazione Usa e la stessa politica climatica di cui la EximBank si era dotata nel lontano 2003, in seguito ad un altro caso legale pionieristico mosso dalla società civile organizzata contro la stessa agenzia del governo. Resta da vedere cosa succederà a distanza di dieci anni con la nuova azione legale. La richiesta delle associazioni della società civile è quella in primis che la EximBank effettui per la prima volta una valutazione di impatto ambientale dell’export e del trasporto del carbone, mirata a valutare quanto questi siano in linea con gli impegni già assunti dall’agenzia e dal governo. Le implicazioni potrebbero essere notevoli, visto che la EximBank negli ultimi anni ha incrementato il suo sostegno a progetti di estrazione di combustibili fossili da 2,5 a 10 miliardi di dollari l’anno. Si potrebbe dire in linea con l’intervento pubblico nel settore delle equivalenti agenzie cinesi pubbliche – anche se poi l’opinione pubblica e i media occidentali tendono a bastonare soltanto gli affari inquinanti del governo di Pechino.
Una gatta da pelare non da poco per l’amministrazione Obama, che pensava con la sua nuova posizione ambientalista di prendere finalmente le distanze dalla potente lobby del carbone americana, la quale aveva sostenuto con forza la prima elezione del giovane presidente alla Casa Bianca, oltre ad aver dato una mano di verde alla politica Usa anche a livello internazionale.
Che dire per l’Ilva nostrana, che dopo aver combattuto per mesi, e alla fine con successo, contro il sequestro cautelativo della magistratura di circa un miliardo di prodotti lavorati in acciaio, realizzati probabilmente anche con il carbone dei monti Appalachi, oggi assiste ad un’azione legale contro uno dei suoi fornitori?