«Il dagherrotipo non è uno specchio sul passato: è una finestra per entrarvi», afferma Martin Gasser, curatore insieme a Sylvie Henguely della mostra «Dal vero. Fotografia svizzera del XIX secolo», coprodotta dal MASI – Museo d’arte della Svizzera italiana con Fotostiftung Schweiz di Winterthur e Photo Elysée di Losanna ed ospitata nella sua prima tappa espositiva nella sede del MASI – presso il LAC a Lugano (fino al 3 luglio 2022). Lo storico della fotografia parte proprio dalla tradizionale definizione di dagherrotipo, primo procedimento fotografico che è allo stesso tempo positivo e negativo – conosciuto anche come «specchio dotato di memoria» – per introdurre la complessa ricerca durata tre anni in 60 archivi comunali, cantonali e privati, nonché nei fondi fotografici dei musei, delle biblioteche municipali, universitarie, ecclesiastiche e delle aziende, al fine di tracciare una mappatura sistematica dei primi cinquant’anni della storia della fotografia in Svizzera. Un lavoro meticoloso che coniuga passione e professione nel dare visibilità a ciò che fino ad oggi non era mai stato fatto.

La mostra è accompagnata dal volume in francese e tedesco D’après nature. Photographie suisse au XIXe siècle (Steidl 2022) curato in collaborazione con Peter Pfrunder. Nell’era del digitale, in cui l’immagine viaggia virtualmente, riscoprire l’«oggetto fotografia» con le sue caratteristiche tecniche non è soltanto un atto nostalgico e anche un po’ romantico, piuttosto innesca una serie di riflessioni incentrate sulla rappresentazione, sull’identità e anche sulla fiducia riposta nei confronti di questo mezzo «moderno» fin dalla sua comparsa.

Tra le circa 400 opere esposte sono numerosi i dagherrotipi in perfette condizioni di conservazione (alcuni anche colorati) spesso di autori anonimi, ma anche noti come Jean-Gabriel Eynard o Friedrich Andreas Gerber con i suoi scorci di Berna: proprio quest’ultimo (era un docente universitario di anatomia veterinaria), avrebbe rivendicato la sperimentazione del procedimento fotografico prima di Daguerre e Talbot, come riporta lo stesso Gasser nel suo saggio. La controversa questione sarebbe stata sostenuta da un certo Otto Buss in un articolo apparso il 3 m arzo 1895 su Der Bund: «Buss non solo sosteneva con veemenza che Gerber era il vero precursore, ma avanzò l’ipotesi che Daguerre avesse beneficiato delle ricerche di Gerber in occasione delle sue diverse visite in Svizzera».

Anche il lavoro dei Fratelli Taescheler era particolarmente conosciuto e, prima ancora, quello di Friedrich Gysi autore del bellissimo ritratto corale (8 singoli ritratti riuniti in una cornice dorata) Enfants de la famille Frey, Aarau (1849), insieme a Emanuel Friedrich Dänzer con i dagherrotipi che mostrano le sue serissime figlie Marie (1856 ca.) e Caroline (1850-52): due bambine che sembrano già perfette gentildonne, sedute accanto al tavolino con la stessa tovaglia a fiori, una fa la maglia e l’altra ha un giornale sulle gambe. Dal vero. Fotografia svizzera del XIX secolo riunisce anche un ambrotipo, albumine, carte salate, stampe al carbone, immagini stereoscopiche e litografie da dagherrotipo, tra cui la veduta del camposanto di Thun e quella di Berna da Thuner Strasse (1844-45) di Franziska Möllinger, prima donna fotografa della confederazione elvetica.

Non è presente, invece, alcun ferrotipo (procedimento al collodio su lastra di ferro in cui l’emulsione era applicata a mano) che pure è stato un mezzo popolare di diffusione dell’immagine fotografica, soprattutto tra il 1855 e il 1865. Ma il ferrotipo, che è così diffuso negli Stati Uniti (non è difficile trovarne ancora nei flea market), accessibile a tutti per il suo basso costo, non era usato in Svizzera dove evidentemente l’offerta era rivolta soprattutto a ceti più abbienti. In particolare, a partire dalla fine degli anni ’60 dell’Ottocento, grande attenzione fu riservata a scienza e progresso, veicolati proprio dal mezzo fotografico. Se l’illustratore scientifico Pierre Lackerbauer osserva al microscopio alghe saline, pulci di gatto e acari (le sue stampe sono all’albumina), Robert Schucht porta avanti un lavoro specifico sulle malformazioni dell’orecchio esterno, annotando con perizia i nomi dei «legittimi proprietari».

Quanto alle grandi infrastrutture, certamente la costruzione della ferrovia del Gottardo, nel 1872-82, che congiunge Lucerna a Chiasso fu ampiamente documentata, così come il tunnel ferroviario di Coldrerio: ma la memoria passa anche attraverso le calamità naturali, come il terribile terremoto di Visp del 25 e 26 luglio 1855 nella narrazione a posteriori dei Fratelli Bisson.

Un ruolo primario è anche quello avuto dalla fotografia nella promozione del turismo, inizialmente attraverso le immagini scattate dai fotografi stranieri affascinati dal paesaggio svizzero: lo stesso John Ruskin (insieme a John Hobbs e a Frederick Crawley) è autore di dagherrotipi, incluso quello con il Cervino fotografato l’8 agosto 1849 e gli scorci di Bellinzona (1858 ca.). Non solo cascate, laghi, ghiacciai (nel 1864 il francese Adolphe Braun inquadra il ghiacciaio del Rodano con un gruppo di scalatori) e vallate (con o senza mucche): anche i costumi tradizionali sono un soggetto seduttivamente esportabile, come la serie di Costumes suisses di Traugott Richard nel formato «carte-de-visite». In queste fotografie d’altri tempi c’è chi è vestito di tutto punto con gli abiti della festa, in crinolina o divisa militare (magari anche con l’ombrellino parasole o il plastron), con i costumi circensi o quelli etnici, per lo più davanti ad un fondale dipinto. Ma c’è anche chi è completamente nudo, come quel povero Cristo di modello che posa nello studio del pittore svizzero Karl Stauffer-Bern, arrampicato sullo sgabello e in croce per l’appunto: correva l’anno 1887.