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Dag Solstad, il presente si è ammutinato

Dag Solstad, il presente si è ammutinatoAnn Lislegaard, «Bellona (after Samuel R. Delany)», 2005

Narratori scandinavi Come altri personaggi dello scrittore norvegese, anche il protagonista di «Romanzo 11 libro 18» è il depositario di un presente ormai scaduto: sullo sfondo, l’ombra di Ibsen

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 2 luglio 2017

L’anacronismo ci appare come una sorta di tranello del tempo: la lancetta va avanti, compie il suo giro poi arriva qualcosa che ci colpisce come un déjà vu. È il tempo che ripassa? – ci si chiede. È la nostra percezione che si inceppa?
Anacronistico è qualcosa che, letteralmente, va contro il tempo. Qualcosa, o meglio ancora qualcuno, che si mette di lato quando passa il corteo delle ore e dei minuti. Lascia scorrere la parata ufficiale e poi si rimette sulla strada. L’effetto è quello di un ritardo sulle cose; a volte, però, è un atto, più o meno consapevole e più o meno volontario, di insubordinazione.

Dag Solstad, settantasei anni, norvegese, è uno scrittore anacronistico, che per di più arriva in Italia con un ritardo pronunciato. Nel 2006 Iperborea pubblicò la traduzione (di Massimo Ciaravolo e Maria Valeria D’Avino) di Tentativo di descrivere l’impenetrabile, il cui originale risaliva al 1984. Nel 2010 arrivò Timidezza e dignità (del 1994 l’edizione norvegese), e ora esce Romanzo 11, libro 18 (Iperborea, traduzione di Maria Valeria D’Avino, pp. 192, €16,50), che la Forlaget Oktober pubblicò nel 1992. Dunque, noi vediamo i libri di Solstad come si vede una stella passata ormai trent’anni fa, con malinconica sorpresa.
L’anacronismo di Dag Solstad, tuttavia, non deriva da questo sfasamento dei tempi editoriali: non sono i trent’anni a fare la differenza, né il fatto, più simbolico che reale, di avere varcato il Millennio. Leggere un romanzo dello scrittore norvegese significa piuttosto trovarsi tra le mani un ordigno riesumato tra gli scavi, un reperto di inizio Novecento, che però – ed è questo a sbalordire il lettore – manda ancora un ticchettio misterioso.
I protagonisti dei romanzi fino ad ora tradotti sono uomini più o meno standardizzati della borghesia norvegese: professori, in Timidezza e dignità, architetti, in Tentativo di descrivere l’impenetrabile, tutti tra i quaranta e i cinquant’anni, che si muovono sulla pagina come se ne avessero sessanta, avendo infilato, più per scelta che per sbaglio, il viale del tramonto. Li si vede sfilare con indosso, come fosse un sudario, la bandiera della resa, in una specie di silenzio sconfitto in cui si tengono insieme altergia e incomprensione.

Il protagonista di Romanzo 11, libro 18 ha caratteri più o meno analoghi: è un esattore comunale che vive in una cittadina della provincia norvegese, circondato da un’atmosfera di fine Ottocento. Bjørn Hansen ha lasciato a Oslo moglie, figlio e carriera assicurata per seguire Turid Lammers. Non l’ha fatto per passione, ma per una stanchezza della vita a cui ha dato il nome di avventura: «Era stata l’avventura a conquistarlo, a impadronirsi di lui …, e non l’amore per Turid Lammers». Il gesto ha echi romantici, ma in fondo ne è la negazione: Hansen, infatti, va «dalla donna che per lui rappresentava l’avventura, pur sapendo che l’avventura era finita nel momento stesso in cui aveva mandato a monte il suo matrimonio per seguir(la)».

Il repertorio di Solstad è quello ibseniano, portato sulla scena della pagina più per collaudarne la sconfitta che per provocare il lettore. Non c’è mai tragedia, nei suoi romanzi, piuttosto una specie di partito preso della desolazione, un ché di estenuato portato fino alle estreme conseguenze. Ibsen, non a caso, compare ogni volta a sancire la sconfitta. È una specie di idolo scaduto. Il professore di Timidezza e dignità si trova a parlare dell’Anitra selvatica, a una classe annoiata (ma «non vedevano la noia come una naturale conseguenza dell’essere allievi; al contrario li indignava dover effettivamente passare la mattina di questo lunedì ad annoiarsi»); proprio al dramma di Ibsen tocca, in qualche modo, sancire la fine dell’idillio mai iniziato tra Bjørn Hansen e Turid Lammers: lei accetta di mettere in scena il testo con la filodrammatica di Konsberg, manda sul palco Hansen e con ciò lo condanna a una disfatta per la quale Turid stessa pagherà.

I protagonisti dei romanzi di Dag Solstad sono i depositari di un tempo ormai concluso. Più che averne cura, hanno ingoiato il tempo in una specie di disprezzo del presente. Si comportano come se volessero dividerlo con gli altri, ma in fondo non è vero. Fanno di tutto per procacciarsi delusioni, preferiscono sentirsi raschiare il tempo in gola piuttosto che metterlo in comune. Quando il figlio di Hansen ricompare, studente a Konsberg, il padre gli apre la porta senza per questo tornare padre. Lo accetta come si accetterebbe un coinquilino. Nel ruolo di genitore dovrebbe ammettere non solo quel che compete alla genetica, ma anche la sua responsabilità sul presente, sull’epoca in cui il figlio e lui stesso vivono, sebbene diversamente: e invece «Non ne poteva più di ascoltare testimonianze sul mondo moderno al quale il figlio era così orgoglioso di appartenere, corpo e anima».

L’anacronismo di Solstad è una sorta di ammutinamento del presente. Guarda sfilare la parata dei giorni, e la lascia correre via. Si ritira nel passato come si sta su un marcipiede a due passi dall’incedere marziale. È così che legge il presente, descrivendone da lontano gli arabeschi. L’Elias Rukla di Timidezza e dignità «leggeva soprattutto romanzi degli anni Venti, che per lui erano un concetto». Ovvero un «ripensamento della vecchia Europa finita in un insensato e inutile bagno di sangue nelle fangose trincee delle Fiandre. Che l’Europa sia sopravvissuta a quella guerra è il vero mistero storico del nostro secolo».
Percepire l’insensatezza del presente: è questa l’eredità che Dag Solstad cerca nella stagione modernista. Chiunque si spinga in quella direzione, dice Elias Rukla, è uno scrittore degli anni venti, anche se per destino anagrafico è cresciuto in un tempo diverso: «dal momento che lo valuto così tanto – certo che sì, pensò, anche Kundera è uno scrittore degli anni venti». Solo in quella prospettiva, a distanza debita dalla parata, è verosimile descriverne l’assurdità. L’anacronismo di Solstad fa vedere il tempo: si posiziona negli anni venti della insensatezza dichiarata, e da lì racconta come finisce il Novecento: «aveva la strana idea che Thomas Mann fosse l’unico scrittore che avrebbe potuto scrivere un romanzo su di lui».

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