Richard Dadd mentre lavora a “Contradiction”, 1854-’58

Nel 1963 il poeta Siegfried Sassoon regalò alla Tate Gallery un dipinto che aveva ricevuto come dono di nozze dalla suocera, Katharine, Lady Gatty. Sassoon donò la tela in ricordo dell’amico Julian Dadd e dei fratelli di lui morti in guerra, lontani pronipoti di Richard Dadd (1817-’86), autore del quadro. Fino al suo arrivo alla Tate si era parlato occasionalmente di quell’opera che, una volta esposta, suscitò una curiosità frenetica.
The Fairy Feller’s Master-Stroke (Il colpo da maestro del taglialegna fatato) portò alla luce un pittore che si era perso nella congerie dei tardo romantici vittoriani: solo nel 1974 si riuscì a dedicargli una mostra per conoscere quel che restava della sua produzione. L’autrice del catalogo, però, non era una specialista di pittura dell’Ottocento inglese ma l’archivista che per anni aveva setacciato le carte del più antico asilo per malati di mente al mondo, il Bethlem Royal Hospital, dove Dadd era stato rinchiuso a ventisette anni rimanendovi fino alla morte. Patricia Allderidge raccontò la storia di quella vita sciagurata e da allora le composizioni di Dadd vennero analizzate in saggi e libri perlopiù concentrati sull’aspetto psicopatologico di quel quadretto, alto poco più di cinquanta centimetri.
Dadd, nato in un villaggio del Kent, figlio di un artigiano specializzato in metalli e dorature, ebbe una rapida vocazione e a vent’anni venne ammesso alle Royal Academy Schools. Iniziò subito a esporre opere di vario genere alla Society of British Art e poi alla Royal Academy stessa, guadagnandosi sempre grande apprezzamento. Con William Powell Frith, John Phillip, Augustus Egg e Henry Nelson O’Neil fondò il gruppo The Clique, anticonformista per quanto gli albori dell’età vittoriana lo consentissero. Dadd trattava composizioni di genere, ritratti, qualche scena letteraria, con quella retorica accademica inevitabile per l’epoca e indispensabile per ottenere l’interesse del mercato. Poi comparvero temi più fantasiosi: favole, preferibilmente tratte dalla più celebre fonte moderna, il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare.
Nello stesso anno, il 1841, Dadd espose alla Royal Academy il Sonno di Titania (oggi al Louvre) e, alla Society of British Art, il Puck (Preston, Harris Art Museum), rivelando una capacità inventiva inaspettata. Nel primo compare Titania addormentata in una grotta la cui bocca è circondata di convolvoli e di folletti, illuminati dalla luce rosata della luna; sul proscenio è una miriade di funghi e in alto un arco di pipistrelli dorati. Nella seconda tela Puck è rappresentato come un fantolino seduto su un fungo che da sotto le ciglia rivolge uno sguardo sornione al girotondo di minuscole fate nude ai suoi piedi, nel chiarore della falce di luna.
Il successo di quelle due tele procurò a Dadd un solido mecenate, Sir Thomas Phillips, avvocato e politico gallese che scelse il giovane pittore per documentare un viaggio in Medio Oriente. Salparono nel 1842 facendo tappe in Grecia, Siria, Libano, Egitto. Phillips viaggiava in fretta e Dadd aveva appena il tempo di schizzare un paesaggio, che si vedeva costretto a ripartire. Come si intende dal tono freddo e snervato degli acquarelli rimasti a testimonianza di quel viaggio, il pittore era a disagio: in Egitto, esausto, iniziò a dare segni di squilibrio asserendo di essere sotto l’influsso di Osiride. Alcuni pensarono a un violento colpo di sole, altri all’abuso di hashish. Poi, sulla via del ritorno, fermatosi a Roma, confessò ai compagni di viaggio di aver avuto l’impulso di uccidere il papa quando gli era transitato vicino in una funzione pubblica. Phillips lo abbandonò a Parigi e Dadd prese la via di casa.
Al suo arrivo tutti si accorsero dello squilibrio mentale: respinse i colleghi, rifiutò le cure e chiese al padre di accompagnarlo in un viaggio in campagna per riguadagnare la pace. Durante una delle loro passeggiate lo uccise a colpi di coltello. La fuga in Francia, il tentativo di assassinare un compagno di viaggio, l’arresto, la confessione, la reclusione e il trasferimento in patria terminarono nel manicomio di Bethlem. La storia di Dadd avrebbe potuto concludersi così se non fosse stato per un nuovo approccio nel trattamento dei reclusi con disturbi della psiche. Gli furono lasciati tela e pennello ed egli riprese a dipingere. Ancora fiabe, ancora il Sogno, ma come se non fosse più la stessa persona.
Per il medico a capo dell’istituto, W. C. Hood, Dadd eseguì un ovale dal titolo Contradiction: Oberon and Titania, in cui i due personaggi si disputano l’imperscrutabile indian boy. Impiegò quattro anni per completarlo ma il risultato spiega la durata dello sforzo nella sua pittura meticolosa, fatta di dettagli minuscoli e criptici. L’esecuzione di The Fairy Feller di anni ne prese nove, dal 1855 al 1864, quando Dadd fu trasferito in un altro istituto, ragione che spiega forse l’incompiutezza della tela.
Questa volta il soggetto era talmente involuto che il pittore finì per spiegarlo in una sterminata composizione in versi liberi. Al centro, il magico spaccalegna sta per sferrare il colpo d’ascia sulla nocciola dal cui guscio verrà ricavata la carrozza della regina delle fate Mab, così come spiega Mercutio nel suo celebre monologo: «Her chariot is an empty hazel-nut / Made by the joiner squirrel or old grub». Attorno è una calca brulicante di esseri fra cui si riconoscono Oberon e Titania, Mab stessa e personaggi senza relazioni proporzionali, apparentemente intenti ognuno in un discorso personale – quella «voce che talvolta risuona come se venisse da un altro luogo, una sorta di ragionamento segreto che ha viaggiato dal mondo dell’immaginazione», come scriveva Katherine Mansfield a proposito di certi monologhi di Shakespeare. Ciascuna di quelle creature, infatti, è intenta in qualcosa d’altro, gli sguardi rivolti altrove, tranne pochi osservatori sulla sinistra, che attendono il calare dell’ascia, e un minuscolo esserino canuto e barbuto, con orecchie da folletto e lo sguardo su quello strumento fatale. L’espressione angosciata e rassegnata al contempo hanno fatto pensare ai commentatori che sia una personificazione dell’autore.
Così come in Contradiction, è scomparso l’orizzonte e con esso una prospettiva plausibile: recluso, Dadd dipingeva a memoria, privo di modelli che non fossero quelli emersi di volta in volta dalla propria mente e chiuso in un ambiente che non permetteva lontananze. Per ovviare alla mancanza di profondità costruì una trama di fiori e di erba di topo, a reggere l’ordito delle figure di elfi e gnomi: non a caso Mario Praz menzionò la tela in un articolo in cui parlava di quel piccolo capolavoro letterario che è Memoirs of a Midget di Walter de la Mare: era il 1952 (poi lo scritto fu ripreso ne Il patto col serpente) e Praz aveva forse visto il quadro in casa di Sassoon o in qualche rara riproduzione, quando ancora il suo titolo era incerto. Non tentò, saggiamente, di interpretarlo come invece è stato fatto dopo la sua esposizione alla Tate da psicologi dell’arte, a volte in maniera che niente aggiunge al mistero e all’incanto di quell’immagine prefigurante l’opera di illustratori ancora a venire.
Scrisse bene A.S. Byatt che, come rappresentazione di un universo magico, il quadro va più letto che guardato, senza un ordine logico, considerando prudentemente quel scrisse Dadd stesso alla fine del suo lungo poema esplicativo: «In fin dei conti si può lasciar andare / ché niente e nulla si può spiegare / e il nulla, dal niente, niente può guadagnare».