Da solo nel banco
Fulmini e saette Eftimios 8/41. Siamo dispari, e nel banco da solo hanno messo me. Quinto Ginnasio, nel quartiere di San Lorenzo a Roma. Era il millenovecentottantacinque. Nel corso di quell’anno insorse dentro Eftimios […]
Fulmini e saette Eftimios 8/41. Siamo dispari, e nel banco da solo hanno messo me. Quinto Ginnasio, nel quartiere di San Lorenzo a Roma. Era il millenovecentottantacinque. Nel corso di quell’anno insorse dentro Eftimios […]
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Eftimios
8/41. Siamo dispari, e nel banco da solo hanno messo me.
Quinto Ginnasio, nel quartiere di San Lorenzo a Roma.
Era il millenovecentottantacinque. Nel corso di quell’anno insorse dentro Eftimios il tumore al cervello. Come? Non bastava la leucemia? E perché, e da dove? Quante volte ci ho pensato, intorno al perché e da dove? L’idea che mi sono fatta è questa: la cobaltoterapia: supposizioni dei dottori, ipotesi delle dottoresse, mezze parole dei professori, riflessioni mie. Può essere, deve essere, non oso pensare altro. Dio, se c’è, non può aver osato tanto contro un innocente.
Eftimios continuò ad andare a scuola, al Ginnasio. Viveva come tutti gli altri ragazzi della sua età, studiava come loro. Certo, più concentrato, più leggero, più… Lo so, state pensando, stai pensando, che esagero, che idealizzo. Capisco: non lo avete conosciuto. Non avete visto dal vivo la grazia dei suoi occhi lucenti – autentica ‘grazia sotto pressione’ (Ernest Hemingway), non avete sentito il silenzio della sua presenza lieve. E qui non c’è che la sua ombra fatta parole. Non bastano mai le ombre, non bastano mai le parole, lo so.
Che dicevo? Sì, la scuola, il quinto Ginnasio. Una classe dispari. Come suddividere ragazzi e ragazze dispari nei banchi? La natura dei banchi è di essere pari, no? La professoressa di lettere provò diverse soluzioni, fino a quella che ci comunicò un giorno Eftimios, di passaggio: “Siamo dispari, e nel banco da solo hanno messo me.” Andammo a trovarla, per capire, la professoressa, e capimmo. Asettica, sorvegliata, avara di parole di colori di sensazioni, secca di palestre eppure lubrificata da saponi delicatamente detergenti, atrocemente sana.
Franz Kafka mandò all’editore della sua Metamorfosi una lettera intorno all’immagine da apporre alla copertina del libro, e scrisse gridando: “L’insetto no!” Non era dunque diventato insetto Gregori Samsa? Chi, cosa, gli altri temevano in lui e fuggivano? Di chi si erano liberati alla fine, con un sorriso complice i genitori, con uno stiracchiamento aggraziato la sorella? Di un essere umano dispari, insomma di un malato.
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