Il falco pellegrino è tornato a volare nei cieli di Roma. Il suo rifugio non è nelle pareti rocciose di una grotta, ma in quelle ormai ricoperte di vegetazione dell’edificio che fu la fabbrica di Viscosa Snia, dei primi del ‘900. Qui nel ’93 i lavori per la costruzione di un centro commerciale dovettero fermarsi dopo aver intercettato una falda acquifera profonda. Lo sgorgare inesorabile dell’acqua diede vita in poco tempo a un lago nel cuore della città, le cui sponde hanno oggi permesso il rinascere di un ecosistema.

«Potremmo dire che intorno alla fabbrica abbandonata si è venuto a ricreare il tipico paesaggio della campagna romana ritratto negli acquerelli settecenteschi, caratterizzato dall’ambiente naturale e dai ruderi», racconta Giuliano Fanelli, Botanico e paesista, membro attivo nel progetto Ex Snia. «La vegetazione ripariale estremamente rigogliosa che si è formata attorno al lago ha permesso il ritorno di una fauna importante composta da specie protette come il martin pescatore o il pipistrello pigmeo. Queste, insieme a numerosi insetti quali la libellula, indicano la pulizia delle acque e l’avvenuta ricostituzione di una catena alimentare. Tenendo conto che non sono molti anni che il lago si è sviluppato, significa che l’ecosistema ha raggiunto rapidamente uno stadio molto avanzato».

Il processo di rinaturazione ha visto tornare piante fitodepuranti per l’acqua come la cannuccia palustre e numerosi alberi quali salici, pioppi, platani, olmi e fichi selvatici, fino a ricreare un habitat ideale per l’avifauna. Il Wwf, membro del Forum Parco delle Energie, che si occupa della gestione cittadina dello spazio del lago, ha avvistato qui 78 tipi di uccelli, di cui 30 stabilmente nidificanti mentre le specie botaniche presenti sono 358.

Pur nella sua particolarità, anche per l’importanza di sorgere in uno dei quartieri più popolosi d’Italia quale il Pigneto-Prenestino, il lago di Roma non è l’unico caso in cui un ecosistema ha riconquistato lo spazio urbano: questo è accaduto in tutte quelle aree in cui la natura è stata lasciata libera di seguire il suo corso, in particolare ex zone industriali o militari, riconsegnate all’oblio dalla fine del servizio di leva.

È IL CASO PER ESEMPIO DELLA PIAZZA D’ARMI, un’area di 35 ettari nel comune di Milano. L’ex cittadella militare composta da magazzini e padiglioni è chiusa da circa un ventennio e oggi ospita un’ampia zona verde in cui si alternano prati, boschi di latifoglie e aree umide. La vegetazione tipica del bosco planiziale permette la presenza di anfibi e di 32 specie di avifauna protette, come il Picchio verde, il Picchio rosso maggiore e lo Sparviere. I prati invece ospitano la varietà erbacea in estinzione della gratiola officinalis. Ma l’importanza del luogo è data anche dalla stratificazione storica di cui è testimone. Questa è rintracciabile negli orti urbani nati come orti di guerra negli anni ’40 e ancora oggi in uso fra gli abitanti della zona e dalla preziosa presenza di una parte dei terreni non toccati da mano umana dai tempi del Medioevo, le cosiddette terre antiche.

«Nella zona della Piazza d’Armi abbiamo una conformazione pedologica molto particolare, che si presenta come occasione unica per studiare dei microrganismi presenti solo in rarissimi altri siti. La terre antiche rappresentano un’importante area di studio e la loro presenza qui dovrebbe bastare per indurci a proteggere questo luogo come un progetto-manifesto», racconta Licia Martelli, Botanica e paesaggista di Piazza d’Armi.

È SINTOMATICO INFATTI COME LE AREE in via di rinverdimento in Italia, nonostante i comprovati vantaggi che apportano alla comunità, debbano essere costantemente difese dagli speculatori, che vi vedono solo spazi vuoti e non un’opportunità di benessere collettivo.
«La nostra associazione ha calcolato che la Piazza d’Armi, con le sue aree verdi, produce ogni anno più di un milione e mezzo di euro in termini di servizi ecosistemici, ovvero tutti quei contributi vitali, come la captazione di carbonio nell’aria, l’impollinazione, il drenaggio delle acque, che la natura, se lasciata in pace, ci offre gratuitamente e che dovremmo iniziare a inserire nei bilanci pubblici», spiega Maria Castiglioni, presidente dell’associazione Le Giardiniere, Parco Piazza d’Armi, che si propone il mantenimento integrale dell’area.

«Oltre ai costi per la manutenzione assolutamente inferiori rispetto a quelli per la gestione di un parco urbano, in cui si spendono molte risorse in input energetici, nell’irrigazione, negli sfalci meccanici e nella piantumazione, da un punto di vista ecosistemico il vantaggio di un bosco spontaneo è enorme rispetto a un parco convenzionale», gli fa eco Giovanni Trentanovi, dottore forestale, collaboratore dell’Università di Padova e membro del comitato scientifico di Rigenerazione no speculazione, nato a Bologna per difendere il bosco urbano dei Prati di Caprara. «La biodiversità, quindi la concentrazione di specie vegetali e animali, è sensibilmente più ricca in un’area in cui convivono vari strati di vegetazione arborea, erbacea e arbustiva, che consentono il costituirsi di zone umide e nicchie ecologiche in cui possono vivere uccelli, piccoli mammiferi e anfibi. Inoltre qui esiste il ciclo di rinnovazione, interrotto invece nei parchi, il quale, grazie alla decomposizione delle foglie, delle cortecce e degli elementi organici, permette il ricostituirsi di suolo fertile», continua Trentanovi.

IL BOSCO DEI PRATI DI CAPRARA, per esempio, sorto sui resti di un’area militare abbandonata nei pressi dell’Ospedale Maggiore di Bologna, e oggi composto da 45 ettari di fitta vegetazione, mostra come nel corso di circa 40 anni si sia compiuto un ciclo completo di riforestazione. Questo processo affascinante è avvenuto grazie allo strato organico che si è depositato sul suolo, sfidando il cemento e permettendo le prime colonizzazioni erbacee e arbustive e quindi il consolidarsi di alberi di alto fusto. La comparsa dei rovi protegge i semi delle piante: all’inizio arrivano quelle più rustiche, che preparano il terreno per alberi di pregio come olmi e querce, i quali daranno vita al bosco più stabile e duraturo.

«In tutte le aree rinaturalizzate presenti nelle città è fondamentale fare uno studio preliminare della vegetazione esistente e un’attenta valutazione, al fine di rispettare le caratteristiche della zona e le necessità dei suoi abitanti, in modo da immaginare uno spazio verde che sia in grado di assecondare i bisogni urbanistici, ecologici, sociali ed economici della città. Questo permette di non farci condizionare dall’immanenza e di pensare un progetto nel lungo periodo. Le piante possono diventare dei capisaldi, dei nuclei intorno a cui ruota la città» afferma Anna Letizia Monti, ex Presidente Nazionale di Aiapp, Associazione Italiana Architettura del Paesaggio, auspicando un aumento della vegetazione urbana in funzione della sua fruibilità e del suo valore per il miglioramento della qualità dell’aria.

La questione della gestione del verde nelle città è stata al centro anche del recente meeting internazionale sulle foreste urbane promosso dalla Fao e tenutosi a Mantova, dimostrando come il dibattito su questo tema sia ormai maturo per essere affrontato in tutta la sua complessità anche in Italia. Infatti mentre in altri Paesi europei, come la Germania o l’Olanda, esistono numerose aree in cui la natura selvatica è stata incorporata all’interno della città, da noi questa possibilità non è ancora concretamente valorizzata.

A FRENARE LA NOSTRA CAPACITÀ di includere nello spazio urbano una natura non completamente dominata, non sono solo i problemi pratici dati da città dall’edificazione particolarmente densa come le nostre, costruite con un ridotto spazio destinato al verde. Si tratta soprattutto di superare il pregiudizio antico secondo il quale «il bosco selvatico è percepito come selva oscura, e non come lo spazio in cui si ha un contatto diretto con la natura benevola, come avviene invece nella cultura del nord Europa», come fa notare Monti. Per comprendere quanto la nostra idea di verde sia ancora legata a una concezione utilitaristica della natura, basta pensare al metodo della capitozzatura, un tempo usato in campagna per gli ulivi e i salici, e purtroppo ancora oggi largamente utilizzato in città per contenere il verde pubblico.

«Sono almeno 40 anni che si dice che la capitozzatura non va assolutamente fatta perché massacra la pianta, esponendola agli attacchi fungini e rendendola instabile, tanto che poi deve essere potata in questo modo per tutta la vita dell’albero. Questo tipo di potatura è inoltre costosissima dal punto di vista economico. Dobbiamo invece inaugurare una visione attenta al ciclo di sviluppo delle piante». Spiega ancora Anna Letizia Monti.
A questo bisogna aggiungere la difficoltà di uscire da un’idea della pianificazione urbana volta a favorire l’edificazione ex-novo, soprattutto nei terreni vergini. Negli ultimi decenni infatti l’urbanizzazione è tornata a prediligere gli spazi urbani, piuttosto che la limitrofa campagna, ma paradossalmente con la pretesa di avere affacci sul verde. «Le città sono dense e i costruttori sono attratti dagli spazi abbandonati» spiega Paola Bonora, presidente del corso di laurea in Scienze Geografiche dell’Università di Bologna e membro del comitato scientifico del processo partecipativo “Parteciprati” dei Prati di Caprara: «Il posizionamento dei Prati di Caprara di Bologna, per esempio, è assolutamente strategico dal punto di vista della rendita fondiaria: è un terreno che scatena gli appetiti speculativi, perché tutti sappiamo bene che una casa col giardino vale molto di più. Adducendo che in questo modo non si consuma suolo agricolo e spacciando questa area come luogo di degrado, parola ambigua utilizzata ormai ovunque si vogliano giustificare degli interventi, si cerca di svalutare un territorio di altissimo valore ecologico e sociale. Pensare di costruire degli edifici nuovi e alimentare il consumo di suolo è del tutto insensato dal momento che in tutta Italia la quantità di aree di natura industriale e residenziale che potremmo riutilizzare è elevatissima».

In questo panorama, l’attenzione dei cittadini sul territorio diviene quindi un forte deterrente, forse l’unico, agli attacchi verso le aree di verde spontaneo. A Bologna, l’istruttoria pubblica richiesta dal comitato in merito alle previsioni di pianificazione urbana con particolare riferimento alla zona dei Prati di Caprara, conclusasi con una temporanea marcia indietro del Comune rispetto alle iniziali volontà di cedere il terreno a privati, ha mostrato come la cittadinanza sia più pronta di quanto si creda ad accogliere un’idea diversa di città più legata alla natura.

NE È UN ESEMPIO IL PROGETTO RIMANI, inviato al Comune di Milano dall’associazione Parco Piazza d’Armi, che, attraverso una proposta di rigenerazione dei magazzini militari e di gestione del verde dell’area punta a creare posti di lavoro sostenibile per piccoli imprenditori e agricoltori.

Anche l’esperimento messo in atto dal Forum Parco delle Energie di Roma, di cui fanno parte diverse realtà del territorio che si occupano della gestione cittadina del verde del lago Ex Snia e chiedono che l’area sia riconosciuta come monumento naturale, ha dimostrato come sia possibile far coesistere la fruizione con le specie selvatiche, attraverso una gestione dolce. Rimuovere i cespugli più invadenti, sfalciare l’erba con un certo intervallo, ha permesso che il passaggio dei numerosi visitatori che qui si avvicendano ogni giorno non danneggiasse la biodiversità del luogo, che anzi negli ultimi anni, proprio grazie a questi accorgimenti, è aumentata. «Il giardino all’italiana tipico del nostro Paese viene da una tradizione di gestione del parco come territorio agricolo e prevede una scarsa attenzione all’aspetto naturalistico. Invece questi luoghi in cui la natura entra in città, sono i più adatti a sperimentare un tipo diverso di gestione paesistica non più artificiale. Questa si traduce in una maggiore attenzione alle specie e all’effetto naturale e vi si contempla anche la presenza delle api, per esempio, come qui all’Ex Snia, il cui miele analizzato ha mostrato peraltro che la zona ha dei tassi di inquinamento molto bassi pur trovandosi nel cuore di Roma».

Con l’evento N, come Negentropia: esplorare, comprendere e aver cura del selvatico a Roma Est, progetto di Stalker/Osservatorio Nomade e NoWorking, l’ex Snia ha da poco ospitato una serie di incontri proprio sul tema della protezione della natura selvatica, aprendo un importante dibattito quantomai attuale per una nuova visione che è soprattutto culturale e che ha il pregio di portarci oltre la nostra paura storica per la diversità e per ciò che non è sotto il nostro immediato controllo.