Cultura

Da Prometeo a Serse, l’invidia «inquieta» degli dèi e la sua narrazione

Da Prometeo a Serse, l’invidia «inquieta» degli dèi e la sua narrazione

SCAFFALE «È pericoloso essere felici», l’ultimo volume di Dino Baldi per Quodlibet

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 16 luglio 2024

È pericoloso essere felici. Questo il titolo dell’ultimo volume di Dino Baldi per Quodlibet (pp. 264, euro 18). La questione proviene da un’epoca in cui non viviamo più. Dal tempo in cui si credeva negli dèi, e in cui gli dèi, per riguardo all’essere umano, ancora decidevano di invidiarlo. Esisteva un’ingiustizia più giusta, volta a ristabilire l’ordine nella relazione tra esseri umani e comunità, tra cittadini e divinità. «Niente di troppo» era scolpito sul tempio di Apollo, il dio che aveva scorticato Marsia e sterminato i dodici figli di Niobe, per lungo tempo invidiati dalla madre Leto. Gli dèi, allora, invidiavano gli esseri umani, desideravano la loro felicità. Leopardi, nello Zibaldone, aveva ritrovato l’origine di tale invidia nei culti orientali eppure, nulla prova «che ci troviamo in una zona ascrivibile al pensiero primitivo». Lo phthonos theòn, l’invidia degli dèi che Dino Baldi racconta è l’immagine di una presenza, il «sospetto che viviamo sotto l’opaca sorveglianza di forze soprannaturali pronte a intervenire in ogni momento per sconvolgere le nostre vite», il presupposto di un ordine di restituzione del fato, l’ammissione di una debolezza originariamente divina.

ALLA BASE di un simile pensiero rimane la traccia di una indiscussa giustizia. Aristotele l’avrebbe detta medietà e in fondo altro non è che un principio d’ordine regolativo per una polis in cui la soggettività è riconosciuta a livello di un intelletto pubblico. Oggi, questa forma di medietà sembra confusa, trasferita su un piano sociale che ha incautamente rimandato il divino a un momento secondario. Quanto ci viene descritta è allora l’immagine di una società in cui esiste e persiste una morale, dove tutta l’umanità pare velata in quell’invidia che persino gli dèi, in Grecia, devono avere posseduto.

Leggendo Baldi, viene alla mente un possibile parallelo con Michael Taussig che in un libro di parecchi anni fa (Il diavolo e il feticismo delle merci), ha raccontato l’invidia narrando la storia di alcuni raccoglitori di canna da zucchero colombiana. Nella valle di Cauca, dei contadini «sono sospettati di aver stipulato un patto col diavolo». Eppure, il patto, contratto per aumentare la produzione, ovvero la raccolta – e quindi il salario –, porterà inevitabilmente alla distruzione del raccolto e quindi all’impossibilità di spendere quel compenso ottenuto sulle spalle degli altri membri comunitari. Differentemente da quanto narrato da Baldi, nel caso di Taussig, l’invidia sembra concentrarsi su un piano prioritariamente individuale: è l’individuo che non tollera l’ingiustizia nell’arricchimento dell’altro, per cui la presenza diabolica appare come risoluzione del conflitto e non come matrice della stessa invidia.

IN MANIERA DIVERSA sia Baldi che Taussig mostrano il significato che l’invidia ha costituito, trasformandosi, nella nostra società. Nel caso colombiano è evidente che ad invidiare non è il dio ma semmai l’individuo emarginato che, pieno di ogni desiderio, cerca una soluzione nella stessa divinità. Egli, però, contrariamente al cittadino greco, non ha tempo per essere felice e nessun dio ad invidiarlo. Ciò che il mondo greco mostrava esemplarmente era un singolare valore riconosciuto e assegnato alla felicità. Se, persino gli dèi hanno invidiato gli esseri umani, con cui un giorno avevano condiviso la loro mensa, non ne avranno certo invidiato una felicità qualunque. Sorge quindi spontanea una domanda, ovvero, «quale spazio lasciamo alla felicità, per cosa ci diciamo felici?»

Dovremmo forse ragionare sul fatto che oggi, pericolosamente, nessun dio avrebbe qualcosa da invidiarci. Ed ecco ancora, inesorabile, Baldi. L’invidia degli dèi, narrata argutamente dall’autore del libro, nel metterci in crisi davanti alla felicità, ci riporta alla misura della vita in cui, come sempre, finiamo per dare ragione agli antichi. Tra queste pagine, torniamo a sentirci minori, riflettendo su quell’ambiguità che i greci hanno saputo trasmutare nelle forme di una morale, per generare quella poesia e quella vita che noialtri, infelici, potremo soltanto continuare a invidiare.

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