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Da Pietro il Grande a Putin, la storia non è finita

Da Pietro il Grande a Putin, la storia non è finita – Reuters

La sfida Grandeur urbanistica russa a Sochi. Sognando una Dubai del Caucaso

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 8 febbraio 2014

Negli ultimi giorni lo zar Pietro il Grande è stato uno dei personaggi più evocati, sulla stampa internazionale. S’è tracciato il paragone tra lui e Putin. Entrambi, s’è sostenuto, hanno travasato in un’immensa sfida urbanistica i loro propositi di grandeur. L’uno a San Pietroburgo, l’altro a Sochi.

Se Pietro fece edificare sulla paludosa foce del fiume Neva l’ex capitale imperiale, con la sua ricca dote di raffinate architetture, Putin ha organizzato sulle rive del Mar Nero, in un’area subtropicale, un’olimpiade invernale, «portando la neve in riva al mare» (espressione abusata di questi tempi) e facendo impiantare nel distretto di Adler, il più a sud di Sochi, strutture e infrastrutture che trasudano modernità, servendo i giochi e i loro atleti.

Ma al netto della foga costruttrice che li accomuna, i propositi di Pietro e di Putin sono diversi. Il primo, portando la corte a ridosso del limes con l’Europa, voleva elevare il rango del paese, farlo partecipare al concerto europeo e contribuire a modellare gli equilibri del vecchio mondo. Putin ha messo in campo un’operazione diversa, se non opposta. I nuovi palazzi di Sochi e la vetrina olimpica suggellano la conversione culturale della Russia odierna. Dopo il crollo dell’Urss, nell’epoca in cui era forte l’idea che la storia stesse finendo, per dirla con Francis Fukuyama, si credeva che Mosca avrebbe progressivamente assorbito i paradigmi del sistema liberale. Ma la storia non è finita. Da quando è salito al potere, nel 2000, Putin ha intrapreso un percorso volto a dare alla Russia un’identità peculiare. È la tesi della «democrazia sovrana» tanto cara al suo ideologo, Vladislav Surkov. La Russia – questo è il succo – è un’entità con tradizioni culturali e pratiche politiche proprie. Se ne sta tra Europa e Asia, senza appartenere a nessuno, se non a se stessa.

È anche questo il senso di Sochi: celebrare il compimento di un progetto politico con un piano edilizio di dimensioni impressionanti. Sono stati spesi 50 miliardi di dollari. Una marea di denaro che ha rivoluzionato profondamente Sochi e il suo respiro un po’ decadente, un po’ affascinante, di luogo di villeggiatura dei tempi sovietici. Oggi Sochi è una città che esibisce un volto nuovo, a tratti avveniristico, a tratti kitsch, con la schiera di locali modaioli sorti nel centro della città e il Sochi Park, un parco giochi che sprizza russità da qualche buon poro.

Sono stati costruiti quattordici complessi sportivi, 260 chilometri di strade, 200 di ferrovie, 54 ponti, 22 trafori e nuovi alberghi, oltre a quelli già esistenti che sono stati ammodernati, riporta l’agenzia Bloomberg, riferendo che più di 150mila persone sono state impiegate nella realizzazione delle strutture olimpiche, in quello che è diventato il più grande cantiere del mondo. A tutto questo vanno aggiunti i 150 chilometri di gasdotti, il nuovo attracco portuale, l’ampliamento dell’aeroporto e altre cose ancora. Tra cui la ferrovia che collega Sochi agli impianti, situati sulla dorsale montuosa del Caucaso, dove si svolgerà una discreta fetta delle competizioni. Solo quest’opera, di ingegneria estrema, è costata nove miliardi. E chissà quanti, di questi, sono quelli determinati dalla corruzione. Se n’è parlato diffusamente, di questa faccenda e dei dividendi spettati agli oligarchi che hanno sguinzagliato le loro ruspe a Sochi.

Ma forse è anche il caso di ribaltare il piano. A l di là della megalomania di Putin, del giro di mazzette (ce ne furono anche a Italia ’90, ricordate?), delle notizie che circolano su alberghi non all’altezza e sui biglietti invenduti, va riconosciuto che i russi, a Sochi, hanno dimostrato che gli ingranaggi della loro macchina organizzativa non sono poi così arrugginiti. Dall’annuncio dell’assegnazione dei giochi sono passati sette anni. E guardate cosa sono riusciti a realizzare, lì sul Mar Nero.

La domanda è se al termine dell’olimpiade tutto questo si tramuterà in un’opportunità di crescita, come Mosca vorrebbe. L’idea è fare di Sochi una sorta di Dubai – paragone comunque azzardato – e di irrobustire la percentuale di Pil originata dal turismo, oggi inchiodata a un misero 1,5%. La sfida è impegnativa, almeno quanto lo è stata la realizzazione di questo mastodontico progetto urbanistico.

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