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Da Palmira a Tivoli, l’alone di un’eroina forgiata nel deserto

Da Palmira a Tivoli, l’alone di un’eroina forgiata nel desertoBusto funerario di Aqmat proveniente da Palmira, fine II secolo d.C., Londra, British Museum

Speciale Classical reception Seducente donna guerriera cresciuta in un bozzolo androgino? Pasionaria araba? Correggendo in parte l’immaginario esotico alimentato dalla Historia Augusta, lo scrittore e drammaturgo franco-libanese Raphaël Toriel ha costruito un intero romanzo epistolare sulla «regina» fatta prigioniera da Aureliano nel 272

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 9 agosto 2020

«Hai avuto il tuo trionfo, Aureliano, è stato grandioso. Ingombrata da ceppi alle caviglie, ho portato catene d’oro ai polsi. Nuda, ricoperta dalle spalle ai polpacci di pietre preziose del mio stesso tesoro, ho camminato dal levar del sole all’imbrunire. Era interminabile! Sopportavo al collo una gogna d’oro tempestata di smeraldi (…) Mi sono dovuta fermare diverse volte per placare l’affanno ma non ho vacillato. Davanti a me, Tetrico e suo figlio, entrambi traditori di Roma, vestiti alla leggera con i loro fronzoli gallici, sono ripetutamente inciampati. Io no! Dovevo resistere, per il mio onore di Regina e per la tua gloria, Cesare! Ho cominciato la marcia senza piegarmi, in piedi l’ho conclusa».
A pronunciare queste parole è la Zenobia di Raphaël Toriel, scrittore e drammaturgo franco-libanese, autore del romanzo J’ai le cœur à Palmyre (Éditions de la Revue Phénicienne 2010, pp. 240; riproposto nel 2014, in formato digitale, dalle Éditions Humanis; con lo stesso titolo, nel 2004, è apparsa per le Éditions du Petit Théâtre de Vallières, una scrittura teatrale). La scena con cui Toriel dà inizio al racconto rispecchia l’indomita fierezza orientale che fin dall’Umanesimo, con Petrarca e Boccaccio – alla cui reminiscenza della regina di Palmira si ispirò anche Chaucer nei Racconti di Canterbury –, ha proiettato la misconosciuta figura della sovrana da un’arida zolla dell’antica provincia romana di Siria al solco sempiterno del mito: qui Zenobia germoglia – splendente e vigorosa nei secoli – accanto a Didone, Semiramide e Cleopatra.
Per la rievocazione del trionfo di Aureliano del 274 (l’ultima rivolta palmirena venne sedata l’anno precedente mentre la disfatta e la cattura di Zenobia risalgono al 272), Toriel si basa – così come buona parte della sua esposizione – sull’Historia Augusta, unica fonte – sebbene posteriore di un secolo rispetto alle imprese della sovrana – dalla quale estrarre notizie sulla consorte di Odenato. Ritenuta inattendibile già nel 1889 da Hermann Dessau, che riconduceva l’opera a un solo autore e non a differenti «firme» come creduto fino ad allora, tale raccolta di biografie degli imperatori, da Adriano a Numeriano, è attualmente considerata più nell’ambito della «fiction» che dell’ortodossia storica. Tuttavia, come fanno notare Annie e Maurice Sartre nel saggio Zénobie, de Palmyre à Rome (Perrin 2014), le acquisizioni della moderna scienza archeologica e il progresso delle metodologie di analisi faticano a scalfire la patina di «eroina romantica» e di «pasionaria araba» sedimentatasi nel tempo sulla memoria della regina. Quest’ultimo appellativo va inoltre rivisto nella sua corretta interpretazione, in quanto Palmira non fu mai un’entità politica autonoma ma, al più tardi dal 19, venne incorporata all’impero romano, costituendone una città-frontiera (poi colonia in epoca severiana), dove Roma manteneva un posto di dogana e una guarnigione. L’epiteto deriva a Zenobia da Odenato, Re dei Re, che lo aveva a sua volta «usurpato» al sasanide Shapur I.
Se Toriel non si discosta dalla caratterizzazione tradizionale di Zenobia quale donna guerriera, cresciuta in un bozzolo androgino, egli le riconosce nondimeno una sensualità dirompente, come nello schizzo di Michelangelo, in cui l’acconciatura culminata da un elmo fa pendant ai seni scoperti e turgidi della preda orientale: «Cosa speravi di fare di me, Aureliano? Una docile agnella? Me, che un padre amorevole chiamava “Khamsin”, vento del deserto, quel vento del Sud, caldo e secco, che sconvolge le dune, offusca il cielo, brucia gli occhi, infiamma i corpi e rende folli i cuori?», le fa dire Toriel. Ma se l’attitudine seducente di Zenobia si esplicherà a più riprese nell’incedere della narrazione sconfinando nell’erotismo, il personaggio che si svela al lettore in quest’opera ha tratti di insolita originalità. L’autore, infatti, costruisce il romanzo come un epistolario immaginario, che Zenobia indirizza in aramaico a Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia nel 260, accusato di eresia dal concilio locale del 268 (o 269) poiché predicava un Cristo non divinizzato e successivamente accolto nella cerchia della regina, che a Palmira seppe circondarsi di uomini di cultura – fra essi vi era anche il filosofo Cassio Longino – e esponenti di varie religioni. Le missive, datate secondo il calendario egiziano in segno di renitenza a Roma, vengono inviate da Tivoli.
Toriel abbraccia dunque la tesi – contenuta nell’Historia Augusta e a cui si riallaccerà, arricchendola di fantasiosi dettagli, Zonara – secondo la quale Zenobia, dopo esser stata graziata da Aureliano, trascorse il resto dei suoi giorni a Tivoli (Tibur) assieme ai figli, nella lussuosa dimora, prossima alla celebre Villa Adriana, che l’imperatore le aveva offerto. Malgrado, sulla scia di indizi forse congegnati ad arte, la fascinazione per il destino di Zenobia abbia spinto gli archeologi a cercare i resti della villa, il luogo di esilio dell’ancor giovane prigioniera permane avvolto da un’aura di mistero. Particolarmente ricche di suggestioni sono le pagine dedicate all’infanzia di Zenobia, che Toriel situa – per volere del padre Antiochos (la filiazione è realmente attestata da un cippo miliario, iscritto in greco e in aramaico, rinvenuto sulla strada da Palmira a Emesa) – a Byblos, in compagnia della genitrice, della sorella Nafsa, del fedele eunuco nubiano Diouf e di Iseth, schiava di origine egiziana (così, come nella finzione, discende da una famiglia greco-egiziana la madre di Zenobia, El Zabba). A questi personaggi si aggiungono il primo precettore della fanciulla «sradicata» a quattro anni da Palmira, Mesomedes, e una pletora di compagni di giochi, fra cui si distingue il piccolo Odenato, venuto da Emesa.
L’eco della terra dei cedri – Toriel è nato nella culla montagnosa del Libano – ispira all’autore ambientazioni famigliari e gli permette al contempo di forgiare la personalità della «sua» Zenobia nel contrasto – anche interiore – fra l’aspro paesaggio del deserto di Palmira e la folgorante rivelazione del mar Mediterraneo. La figura del giovinetto che porta lo stesso nome del futuro consorte, primo fra i notabili di Palmira, è invece un tenero espediente per introdurre la trasformazione dell’«amazzone» – abilissima nella caccia agli animali selvatici – in una donna innamorata, che eleva un altare di tre pietre ad Afrodite e vi getta un pugno di incenso: «Io scivolavo come un ramoscello sull’onda, che cerca una riva e la trova al mattino». Senza scadere mai nella retorica e sostenuto da una lingua raffinata e poetica, il testo di Toriel sprigiona da un prezioso cofanetto (quello in cui l’io narrante del prologo confessa di aver trovato, in una vecchia casa di Byblos, copia delle lettere «arrotolate» di Zenobia), tutto ciò che la regina ha rappresentato nell’immaginario collettivo – forza, audacia, sapienza – restando però nella giustezza dei fatti. Zenobia, non appare infatti, come vorrebbero alcuni mistificatori, l’«indigena» che si è ribellata a Roma, ma colei che dopo la morte di Odenato – battendo moneta con la sua effigie e quella del figlio Vaballato, dono della dea Allat, ha osato associarsi al potere virile dell’impero.
Palmira, con i suoi templi, la luce rosa dell’alba e l’ocra che dipinge i tramonti, resta – diafana – sullo sfondo. All’improvviso, l’opulenza dei sacrifici a Bel, signore del pantheon cittadino, il silenzio degli ipogei in cui i notabili consumano un pasto davanti ai busti funerari degli amati, l’odore delle spezie e il tripudio di stoffe colorate che danno le vertigini nel caravanserraglio, irrompono nella narrazione per ricordare la vita all’ombra del palmeto. Ma ora che anche l’Oasi, dopo le devastazioni dello Stato Islamico, è scomparsa sotto le fiamme del regime, risuonano melanconicamente le parole dello scrittore: «Palmira non è più che fuoco profumato». E la lacerante nostalgia di Zenobia che, nel componimento di Toriel, rifiuta la proposta di Aureliano di ricostruire la città in rovina, diviene un rinnovato pianto universale: «Senza Palmira sei come un fiore che languisce al pallido sole di Roma! Senza Palmira sei morta!».

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