Da Mosca con amore, un elettrizzante Ensemble
Musica Nel cartellone della Biennale dalla Russia il sorprendente Studio for New Music
Musica Nel cartellone della Biennale dalla Russia il sorprendente Studio for New Music
Sempre vispi questi russi. L’Ensemble Studio for New Music di Mosca aveva elettrizzato gli ascoltatori della Biennale Musica nel 2011. E ci riesce di nuovo quest’anno. Il piglio dadaista di qualche giovane del gruppo rimane. Anche se poi, alla fine, a convincere di più è il settantaduenne Faradj Karaev con un brano di sottigliezze ambient che incantano. Una musica ambient così il pur notevole Brian Eno se la sogna. Perché fa proprie le esperienze delle avanguardie, lavora sulle risorse nascoste, segrete, degli strumenti e della materia del suono.
Last Postlude-post inizia con una sola nota di pianoforte immersa nel silenzio, ripetuta, che poi dà luogo a fragili dolcissimi arpeggi. Altri pochi strumenti suonano distese melodie che sembrano venire da un’arcana lontananza.Il quadro sonoro che si forma non fa pensare ad alcuna tradizione folk, viene più in mente un certo sfumato Rothko.
Dadaisti e iper dadaisti. Sembra che l’aria di Mosca, nonostante Putin, favorisca le nuove indagini sulle convenzioni sonore oltraggiate, sulla gestualità sconsiderata, sullo strumentario eterodosso. Anna Romashkova, trentenne, in prima assoluta con Compassion for a Thing, non ama però la violenza. Mette in scena flautini monosonici, archi «grattati» con sapienza e discrezione, una voce di donna che a lungo emette una sola vocale puntata e, inaspettatamente, si espande in un fraseggio che parte da Pierrot lunaire e arriva… sulla luna. Alexander Khubeev, ventinovenne, e Olga Bochikhina, trentacinquenne, sono invece scatenati.
Lui (A posteriori, prima assoluta) usa un organico dove primeggiano varie bottiglie di plastica formato gigante che vengono ruvidamente strofinate con gli archetti dei violini, poi aggiunge suoni gutturali, un po’ troppo tendenti al parodistico, dei fiati. Lei in X.II(Chagall’s Clock) fa agitare nell’aria le bacchette dei percussionisti e gli archetti dei violini, non lesina i glissando né le percussioni sulle corde degli archi, trova magnifici asperrimi suoni, ha una gran voglia di irriverenza e di dissacrazione.
C’era molta attesa per il nuovo brano commissionato dalla Biennale Musica a Vladimir Tarnopolski, il direttore artistico dello Studio for New Music. Studio di ragazza che legge le poesie di Pavese è il più classico, nella lingua di quella che una volta si chiamava avanguardia, dei lavori in cartellone. Per soprano e strumenti, sorprende soavemente in alcuni passaggi tipo lied romantico della parte vocale. È musica libera, con tanti frammenti cantabili intrecciati delle parti strumentali e tante virate verso il non-tonale delle linee per la voce. Quando arriva lì, purtroppo, Ekaterina Kichigina fa una fatica tremenda.
Ci sono anche autori non russi. La coreana Unsuk Chin ci regala una splendida Fantaisie mécanique per piano, tromba, trombone, 2 percussioni dove fa del post-post-freejazz. Il polacco 77enne Zygmunt Krauze con Song si diletta mirabilmente in originali/tradizionali unisoni cantabili.
Grande bravura, nitidezza, fulminea proprietà degli accenti. Parliamo degli strumentisti dello svizzero Lemanic Modern Ensemble. Il direttore William Blank fa eseguire un suo noioso Éos per oboe e ensemble. Molto meglio i due italiani circa quarantenni e le loro novità: Matteo Riparbelli con Lete e Luca Antignani con Litanie briganti, tutti e due intelligenti esploratori del nuovo lirismo. Ovvio che George Benjamin con At First Light (1982) spicca per maestria. Che spicchi per contemporaneità del suo approccio culturale, con tutti quegli effetti tipo «risveglio della natura», è dubbio.
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