Da Maas e Pasquali al computer: dov’è il baricentro?
Critica del testo e filologia La riedizione dell’aurea «Textkritik» del filologo tedesco e un manuale di Paolo Trovato, ribadiscono l’importanza del metodo genealogico nell’epoca delle «digital humanities»
Critica del testo e filologia La riedizione dell’aurea «Textkritik» del filologo tedesco e un manuale di Paolo Trovato, ribadiscono l’importanza del metodo genealogico nell’epoca delle «digital humanities»
Se le tavole della legge le scolpì Karl Lachmann (arconte eponimo che oscurò subito i patriarchi Madvig, Ritschl, Zumpt), l’apostolo delle genti fu Paul Maas – tedesco di famiglia ebrea, riparato in Inghilterra alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale –, che con la sua Textkritik diffuse il verbo della filologia ai quattro angoli della Vecchia Europa. E dalla Textkritik gemmò la torrentizia recensione di Giorgio Pasquali confluita presto nella profetica e genialissima Storia della tradizione e critica del testo. Il libello di Maas (18 pagine nella prima edizione tedesca), più volte edito e tradotto, esponeva in maniera succinta i principi generali della disciplina filologica. Riducendo all’osso: ognuno di noi, quando copia un testo, commette alcuni errori; così accadeva ai copisti del passato trascrivendo Virgilio o Dante. Se due manoscritti «A» e «B» condividono un errore difficile da commettere e difficile da riconoscere, esiste una ragionevole probabilità che siano imparentati tra loro. Se poi «A» conterrà altri errori dello stesso genere ma solo suoi e così anche «B», potremo essere ragionevolmente certi che «A» e «B» derivino non l’uno dall’altro, ma entrambi da un manoscritto genitore. Procedendo con questo passo genealogico è possibile raggruppare i manoscritti in famiglie e, grado per grado, risalire al primo genitore, ossia al codice più vicino a quello dell’autore. Sono i concetti di errore significativo (Leitfehler), congiuntivo (Bindfehler) e separativo (Trennfehler), per la verità non nuovi, ma sistematizzati da Maas in una «esposizione rigorosamente geometrica» (così Pasquali nell’Introduzione alla prima edizione italiana). E in effetti a volte par quasi di leggere Machiavelli (Principe, I: «Tutti gli stati (…) che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o republiche o principati. E’ principati sono o ereditari, o sono nuovi» / La critica del testo, B 3-4: «La tradizione si fonda o su un testimone o su più testimoni (…). 4. Ciascun testimone dipende o da un modello conservato o da un modello perduto»).
È evidente che un simile procedimento applicato a tradizioni testuali molto folte richiedeva un lavoro di confronto lungo e a volte frustrante. All’indomani della prima uscita della Textkritik il filologo francese Joseph Bédier propose come alternativa metodologica l’affidamento al bon manuscrit, ossia al codice, conservato, che prometteva di offrire le maggiori garanzie testuali. La proposta, che pretendeva di poggiare su un manoscritto realmente esistito e non su un testo ricostruito con procedimento razionale, fece breccia e in breve tempo diventò la tecnica editoriale prediletta dalla scuola filologica francese. Negli anni a seguire il metodo genealogico venne ulteriormente rintuzzato ora mettendone in rilievo l’inadeguatezza a gestire tradizioni testuali in movimento, ossia aperte all’intervento di copisti e rimaneggiatori (il concetto di mouvance elaborato da Paul Zumthor), ora enfatizzando il ruolo del pubblico e dei lettori nel determinare la facies testuale anche nei suoi connotati materiali (mise en page, scelta dei caratteri etc.), nonché la rilevanza degli stessi nel processo ermeneutico, a scapito del ruolo dell’autore di cui si dichiarava la sostanziale irrilevanza (la New Philology di marca anglo-americana). Questa attenzione verso dati materiali, fortuna editoriale, ricezione, talvolta condensata nella formula di philologie matérielle, ha avuto come naturale approdo la nuova frontiera delle digital humanities che stanno mettendo a disposizione degli studiosi una grande quantità di documenti manoscritti e a stampa, e rendono decisamente meno ingrato anche il lavoro filologico. Perché se le potenzialità dispiegate da queste nuove tecniche di raccolta sono benvenute e benedette, rimane indispensabile applicarvi un criterio di sistematizzazione per comprendere dinamiche di confezione, movimento e relazione dei materiali. È compito che, ancora e sempre, spetta e spetterà alla disciplina filologica.
Ben venga dunque questa nuova traduzione della Textkritik di Maas, condotta con rigore e intelligenza da Giorgio Ziffer sulla quarta edizione tedesca del 1960 (La critica del testo, Edizioni di Storia e Letteratura, pp. xxviii-84, € 10,00; il libro sarà presentato da Lino Leonardi, Elio Montanari e Michael D. Reeve, martedì 28 novembre alla Fondazione Ezio Franceschini di Firenze), e dunque tale da accogliere anche la seconda Appendice al manuale (Sguardo retrospettivo del 1956). E va salutata con favore anche la scelta della casa editrice di mantenere al volumetto una veste sobria ed elegante, in linea con i raffinati libelli della «Bibliotechina del Saggiatore» Le Monnier, dove il saggio apparve per la prima volta nella traduzione italiana di Nello Martinelli (sarà troppo chiedere di ripubblicare anche i volumetti filologici di Vitelli, Fränkel, Pasquali?). L’introduzione di Ziffer è essenziale e funzionale al tempo stesso, incrociando dati biografici e brevi notazioni di stile. Rispetto alla traduzione precedente Ziffer si mantiene più fedele all’originale, anche nelle consuetudini tipografiche (cadono, fra l’altro, i titoli di paragrafo introdotti da Martinelli; fra le curiosità v’è il calco del termine iparchetipo, laddove Martinelli ricorreva a subarchetipo, più familiare all’orecchio accademico italiano). Resta forse un piccolo rimpianto per l’esclusione della Nota di Luciano Canfora all’edizione del 1972, cui si poteva accodare, dello stesso Canfora, il contributo Origine della “stemmatica” di Paul Maas (1982). Ma sarebbe stato un altro libro, e dunque benissimo così.
Una salutare diffidenza verso le magnifiche sorti e progressive delle tecniche computer assisted (di marca perlopiù anglosassone, si pensi alla cladistica che applica alle lezioni dei codici procedimenti classificatòri tipici delle scienze naturali), e per contro una indefettibile fiducia nello iudicium del filologo, nella sua possibilità di razionalizzare dati che sono e restano frutto di un’attività umana e come tali sfuggono agli automatismi della macchina, animano il manuale di Paolo Trovato (Everything you Always Wanted to Know about Lachmann’s Method A Non-Standard Handbook of Genealogical Textual Criticism in the Age of Post-Structuralism, Cladistics, and Copy-Text, Revised Edition, Padova, Libreria universitaria, pp. 362, € 29,90). La scelta di pubblicare un manuale di filologia in lingua inglese indica dove allignano, per Trovato, le insidie più pericolose per i neolachmanniani. Non so se sia un caso, ma mi pare significativo che nel titolo non figuri mai la parola philology (torna però, e più volte, nel volume) che – come mi rivelava qualche giorno fa un collega d’oltreoceano – è considerata, specie nelle università americane, un’espressione «out of date», tale da scoraggiare qualsiasi tentativo di dibattito accademico, per non parlare delle iniziative editoriali. Trovato ripercorre le tappe salienti del metodo genealogico, affrontando col piglio deciso che lo contraddistingue le obiezioni sollevate da Bédier in poi e mettendo, direi spietatamente, in evidenza tutti i limiti delle nuove proposte ermeneutiche e dei più recenti approcci della critica testuale. Emerge fra l’altro come gli oppositori del metodo del Lachmann, nonché totalmente digiuni di stemmatica, «have not read a single important genealogical philology study published in the last seventy years» (p. 78). L’idea di un manuale in inglese che faccia presa su un terreno oggi refrattario a questa disciplina va dunque nella direzione giusta anche se, accanto a esempi arguti (ognuno di noi leggendo l’advertisement di un appartamento dotato di un «explosive yard» si farebbe critico testuale correggendo «explosive» in «exlcusive»), resta il dubbio che un collega di madre lingua inglese – se non sia un italianista – riesca a capire gli esempi tratti dalla Commedia o dalla frottola Di ridere ò gran voglia: è un difetto di sistema non imputabile al manuale, ma è un ulteriore inciampo verso il dialogo accademico con l’altra sponda dell’Atlantico.
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