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Da Longo al «no» alla Bolognina

Da Longo al «no» alla BologninaLuigi Longo, Enrico Berlinguer, Armando Cossutta e Giorgio Amendola in una manifestazione a Milano negli anni 70

La biografia «Rottamatore» contro gli uomini di Secchia, avversario di Bertinotti 50 anni dopo

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 16 dicembre 2015

Il 14 luglio 1948, appena si diffonde la notiziadell’attentato a Togliatti, 45mila operai di Sesto San Giovanni, la «Stalingrado d’Italia», riempiono la piazza del Rondò, occupano le fabbriche. Il commissario di polizia di Sesto si presenta da Armando Cossutta, ventenne segretario della sezione, e gli dice: «Dottore, io sono ai suoi ordini». «Non sono dottore», risponde Cossutta, e lo manda via. Poi, dopo sessant’anni, nelle sue memorie, spiega: «La sua era solo una mossa per seguirci più da vicino».

Comunista allevato da Luigi Longo nella cura dell’organizzazione e della «vigilanza democratica», responsabile negli anni più duri della sicurezza interna del partito, Cossutta è stato anche giovanissimo segretario della federazione milanese incaricato da Togliatti di «rottamare» il gruppo dirigente secchiano (erano con lui Tortorella e Rossanda), il più giovane componente della Direzione nazionale (negli anni Sessanta di soli 17 componenti), coordinatore dell’ufficio di segreteria e capo dell’organizzazione del più grande partito comunista d’occidente. «Ha accumulato troppo potere, del quale peraltro non ha abusato», disse di lui Berlinguer quando decise di rimuoverlo dalla segreteria (per affidargli gli enti locali) sostituendolo con Gerardo Chiaromonte, uno dei capi della destra interna che condizionerà fino all’ultimo il segretario.

Pesava su Cossutta la fama di «uomo di Mosca» perché da responsabile dell’amministrazione aveva il controllo del Fondo di solidarietà con il quale l’Urss sosteneva i partiti fratelli – dollari che servivano in minima parte a bilanciare quelli che la Dc e i socialisti italiani ricevevano dagli Usa e che nel Pci finivano quasi per intero, ha raccontato Cossutta, a tamponare i buchi della stampa comunista e fiancheggiatrice. L’accusa aperta di «filosovietismo» gli è stata mossa solo negli anni Ottanta, quando l’Armando contrastò lo «strappo» (espressione sua) di Berlinguer successivo al colpo di stato in Polonia; prima non avrebbe potuto dirlo nessuno. Non nel partito – i rapporti con Mosca erano tali che quando Cossutta, dirigente di turno a Botteghe oscure nell’agosto del ’68 fu informato dell’invasione di Praga e non riusciva a contattare né Longo né Berlinguer né Amendola (tutti in vacanza oltrecortina), per bucare il muro sovietico dovette minacciare i compagni di rivolgersi altrimenti all’ambasciatore italiano a Mosca, somma ingiuria. E nemmeno fuori dal partito, visto che da capo dell’Italturist era Cossutta ad accompagnare in Urss i dirigenti Eni o il ministro degli esteri Fanfani per concludere affari. Dalla fine degli anni Settanta Cossutta fu avversario di Berlinguer, ma restò sempre contrario alle idee di scissione che pure già allora circolavano. Restò in minoranza, e lasciò il Pci solo quando fu sciolto.

Dopo la svolta della Bolognina le mozioni contrarie al «nuovo che avanza(va)» occhettiano erano due: Cossutta si infuria quando scopre che gli ingraiani non vogliono fare fronte con lui, filosovietico, conservatore. È un marchio comodo per gli avversari, soprattutto quelli interni, gli resterà addosso fino alla fine, anche mentre anni dopo partecipa al gay pride. Gli ingraiani non lo seguono nella rottura al congresso di Rimini e nella nascita del nuovo partito, Rifondazione comunista. Lo fonda con Sergio Garavini, Ersilia Salvato, Lucio Libertini, Rino Serri. Nel 91 è l’anima e l’organizzazione di un’amalgama fra cossuttiani, ex pdup, ex ingraiani, trozkisti, ex Dp ed ex Lc. A dicembre al primo congresso, Sergio Garavini è segretario ma non vuole accettare la «diarchia», cioè che gli sia affiancato un presidente. Si dovrà rassegnare: Cossutta non viene votato ma acclamato, standing ovation e Bandiera rossa alla fine del suo intervento. È ancora Cossutta a imporre, contro il parere di molti dei suoi, Fausto Bertinotti segretario nel ’94, ex sindacalista rimasto fin lì «nel gorgo». Alle politiche del 96, quelle della «desistenza» per «battere le destre» l’Ulivo vince e Rifondazione arriva all’8,6 per cento.

È il suo capolavoro politico: il binomio «autonomia e unità», «una formazione chiaramente di sinistra ma in rapporto unitario con le forze progressiste». La sua stella polare fino all’ultimo. Ma i voti del Prc sono determinanti per la vita nel governo. Bertinotti presto si convince che serve «un passo indietro per farne due avanti». Ha un’altra idea di partito. Nel ’98 Rifondazione vota contro la finanziaria, Cossutta si dimette da presidente e annuncia, con Diliberto e altri, il suo sì. Il voto non basta a salvare il governo Prodi, ma manda avanti la legislatura. A ottobre nasce il Partito dei comunisti italiani, parteciperà al successivo governo D’Alema – con Cossiga – che parteciperà ai bombardamenti in Kosovo (e Cossutta prima volerà a Belgrado da Milosevic) e poi Amato. Nel 2006 sosterrà l’Unione. Ma stavolta è con Diliberto a scavarsi il solco. Nel 2006 Cossutta di nuovo si dimette da presidente. Poi dal partito. La sua «linea» resta quella di un comunista per l’unità con le forze progressiste. Nel 2009 dichiara di votare «da comunista» per il Pd. Resta fino alla fine partigiano, muore da vice presidente nazionale dell’Anpi.

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