Da Londra allo schermo, «il mio cinema working class»
Intervista La regista Luna Carmoon presenterà stasera a Napoli «Hoard» e ritirerà il Premio Pedicini
Intervista La regista Luna Carmoon presenterà stasera a Napoli «Hoard» e ritirerà il Premio Pedicini
Una giovane madre, venere in pelliccia post punk (indimenticabile Hayley Squires), canta a squarciagola indovinelli con la piccola figlia adagiata dentro un carrello della spesa. Insieme scavano nei cassonetti di un quartiere periferico: gli scarti, i resti, il posticcio diventano addobbi luccicanti e favolosi di una casa/rifugio dove le due condividono giochi, storie, frammenti di un mondo immaginifico e sospeso, ai margini della società e della norma, che la piccola Maria porterà con sé per tutta la vita. Inizia così Hoard (menzione speciale della Settimana della Critica a Venezia 80 alla protagonista Saura Lightfoot-Leon), primo lungometraggio della ventiseienne londinese Luna Carmoon, i cui cortometraggi Nosebleed (2018) e Shagbands (2020) erano stati premiati al Bfi London Film Festival. Già nel titolo evoca qualcosa che sfugge, smargina rispetto a modelli e definizioni, un «accumulo» metaforico esistenziale di «immondizia umana»: ricordi, rimossi, amore e rabbia. Un esordio degno di nota celebrato anche nella rassegna Venezia a Napoli curata da Antonella di Nocera, alla sua tredicesima edizione. Stasera alla regista verrà consegnato il Premio Autrici Under 40 Valentina Pedicini per miglior regia e sceneggiatura. Per l’occasione l’abbiamo intervistata.
Come hai iniziato a fare cinema?
Vengo da Lewisham, a sud di Londra, un quartiere abbastanza complicato. Mi piace il cinema da quando ero piccola: saltavo le lezioni per andare a vedere i film. Non potevo permettermi di andare a una scuola di cinema o all’università. Nel 2019 sono stata presa dalla Creative England’s ShortFLIX scheme, un programma che permette a chi non ha esperienza di entrare nell’industria cinematografica. Non sarei mai riuscita a cominciare il mio percorso senza quest’opportunità.
Da dove viene la storia di «Hoard»? Cosa racchiude il titolo?
Hoard è un accumulo di emozioni. Il titolo evoca proprio questo mettere insieme epoche, luoghi, sorprese: quello che accade nella vita di Maria. Molte persone pensano sia un film autobiografico, lo è e non lo è. Si nutre delle mie memorie. C’è il mio sangue, le mie sensazioni, i miei ricordi, la mia rabbia, la mia felicità, ma io non sono Maria. Tutti gli altri personaggi che la circondano provengono dal ricordo di persone con cui sono cresciuta.
Il film racconta una storia molto contemporanea, la prima parte è ambientata negli anni ’80, la successiva circa dieci anni dopo. Perché hai scelto questo periodo?
Anche se si tratta di una storia universale, non poteva essere ambientata oggi, in un’epoca di cellulari, social media, iper connessione, in cui non ci guardiamo neanche negli occhi l’uno con l’altro. I miei sono personaggi della working class da cui io stessa provengo. A casa noi parlavamo, discutevamo di come ci sentissimo, delle nostre esperienze di vita. Maria finisce la scuola presto, è tremendamente giovane: sola con se stessa, non ci sono altre distrazioni, deve decidere chi è, cosa fare della sua vita. Forse adesso questo non succederebbe, non si abbandonerebbe alle sue memorie, sicuramente avrebbe tante cose che la distrarrebbero dalla sua solitudine. Oggi non siamo mai soli, cerchiamo sempre di non soffermarci a riflettere su cosa proviamo.
Molte parti del lavoro sembrano frutto di una libera interpretazione degli attori. Quanto spazio hai lasciato all’improvvisazione?
Amo lavorare con gli attori, è la parte che preferisco. Saura Lightfoot-Leon nel ruolo di Maria adulta aveva circa 24 anni quando abbiamo girato, aveva fatto delle cose in tv, questo è stato il suo primo ruolo principale. Quando abbiamo iniziato conosceva la storia della prima parte del film, della piccola Maria, per il resto non aveva idea di cosa sarebbe successo. Si è affidata completamente. L’intero film era basato su uno storyboard ma non sapevamo dove sarebbe andato, io lavoro con attori e non attori, persone che non hanno mai recitato o che sono sullo schermo per la prima volta. Questo rende tutto più naturale, fluido.
Ti aspettavi questo successo? Ci sono degli immaginari anche cinematografici a cui fai riferimento?
Non mi aspettavo che qualcuno guardasse i miei lavori. Penso che questo sia un film molto particolare nei dialoghi, per come è scritto e recitato, per i suoni, gli accenti, le rime, i ritornelli: la gran parte delle persone a Londra non parla così. Il cinema italiano è il primo in cui ho ritrovato personaggi che mi ricordavano mia madre e mia nonna, penso ad Anna Magnani ma anche Silvana Mangano. Sua madre Ivy Webb era nata a Croydon, da dove vengo io. Vedevo queste donne povere, bellissime e fiere: la loro forza mi ricorda il modo in cui sono stata cresciuta. Uno dei miei film preferiti è Riso amaro. Anche a Londra ci sono donne così ma quasi mai vengono raccontate al cinema, non vedi mai quel colore vibrante, potente, ed è un peccato.
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