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Da che pulpito viene la predica contro il salario

Da che pulpito viene la predica contro il salarioRider a Firenze – Aleandro Biagianti

Lavoro La bassa produttività deriva da investimenti dirottati dalla produzione ai servizi (turismo o finanza), dove è più bassa la sindacalizzazione e la conflittualità

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 7 giugno 2022

Gli stessi gruppi dominanti, non potendo negare il fatto, hanno delegato ai propri intellettuali il compito di trovare una spiegazione buona per sterilizzare la portata rivendicativa e conflittuale che di per sé comporterebbe il farsene carico: è vero che i salari calano – sostengono – ma perché a calare è la produttività del lavoro.

Tralasciando che i salari ristagnano anche rispetto alla produttività calante, l’obiezione liberale è da tenere in considerazione, dal momento che, da un lato, essa contiene una verità; dall’altro, e conseguentemente, analizzare questa verità può dare spunti importanti per comprendere le motivazioni di quanto strutturalmente accaduto nell’ultimo trentennio e approntare contromisure.

È dunque vero che c’è stata una riduzione salariale complessiva legata alla perdita di produttività nel Paese. Ma ciò è avvenuto non perché in Italia si lavora di meno, ma perché in Italia si sono persi settori ad alto valore aggiunto, cioè nel cui ambito di trasformazione si registra un maggior incremento di valore. Per cui, a parità di ore lavorate, si è meno produttivi. La grande fabbrica dedita alla meccanica di precisione crea più valore aggiunto di un B&B o un centro commerciale. Chi pertanto oggi lavora nei settori del primo tipo non ha probabilmente registrato perdite salariali rispetto a chi ci lavorava trent’anni fa; il problema è che c’è meno disponibilità di lavoro in quei settori, per cui si lavora di più nei settori del secondo tipo, e si guadagna complessivamente meno.

Quanto accaduto è direttamente legato alla controrivoluzione neoliberale. Le giaculatorie sulle “tasse” o sull’eccessiva “burocrazia” lasciano il tempo che trovano: veniamo da anni di detassazione (formale e informale) delle grandi ricchezze, di cure austeritarie imposte alla pubblica amministrazione, senza che la fuga dall’investimento in settori ad alto valore aggiunto venga arrestata. Si invocano l’aumentata concorrenza internazionale, figlia della globalizzazione, o le condizioni penalizzanti dell’ingresso del Paese nel processo di integrazione europea. Ma, a ben vedere, si tratta di effetti più che di cause.

L’industria italiana ha subito la concorrenza di Brasile, Serbia o Polonia nella fabbricazione di auto non per l’emergere di case automobilistiche brasiliane, serbe o polacche, ma perché là è stata trasferita la produzione da parte di capitalisti italiani. E la debolezza dell’Italia in Europa è una conseguenza della debolezza preesistente del nostro apparato produttivo.

Forse, per capire quanto successo, bisogna abbandonare i freddi meccanismi dell’economia e addentrarsi nel vivo della politica e dei rapporti di potere tra le classi. Perché l’apparato produttivo italiano è stato smantellato per una precisa scelta di classe, fatta dai gruppi dirigenti nel momento in cui l’intensità del conflitto sociale aveva iniziato a mettere in forse equilibri di potere secolari nella penisola. La grande fabbrica è stata epicentro tanto della produzione ad alto valore aggiunto, quanto della rivolta dei subalterni.

Se i capitalisti italiani hanno preso a dismettere investimenti nella produzione per dirottarli nei servizi al turismo o nella finanza, ciò è stato perché nella ricezione alberghiera o nei centri commerciali il tasso di sindacalizzazione e di conflittualità è immensamente più basso, come più basso è il potere di interdizione della manodopera, che non nella produzione di auto, turbine o prodotti chimici. Per non parlare dei settori finanziarizzati. La controrivoluzione neoliberale è stata frutto non tanto di una vittoria, quanto dello smantellamento del terreno di gioco.

Questa via alla valorizzazione del capitale ha arricchito smodatamente alcuni grandi gruppi di speculatori, ma ha impoverito il Paese nel suo complesso. Sia perché gli italiani guadagnano meno; sia perché il modello di sviluppo è totalmente dipendente dalla congiuntura internazionale; sia perché c’è meno bisogno di formazione professionale, scolastica e universitaria. Con un effetto perverso: più si indebolisce la posizione generale dei lavoratori, meno la valorizzazione del capitale ha bisogno di innovazione, poiché l’accumulazione può contare sulla debolezza del lavoro.

La messa in campo di un insieme coerente di contromisure è necessaria non solo per far fronte all’impoverimento progressivo dei lavoratori, ma anche per il bene complessivo del Paese. Contromisure come salario minimo e reddito di base, per diluire la minaccia del lavoro povero; e massicci investimenti pubblici nei settori ad alto valore aggiunto, per rimediare alla diserzione dei capitalisti. Possiamo o non possiamo chiamarlo socialismo, ma di questo c’è oggi (ancor più) bisogno.

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