«Lungo i vecchi sobborghi, che lussurie segrete / dietro imposte cadenti dànno asilo / quando raddoppia il sole i suoi dardi crudeli / sulla città e sui campi, sui tetti… / alla mia scherma fantastica m’esercito fiutando / a ogni angolo gli azzardi della rima / e come in sassi incespico in parole / per imbattermi, a volte, incespico in parole». È uno scrap da Le soleil nei Tableaux parisiens di Baudelaire, il poeta perdigiorno che passa vagolando senza meta per Parigi: un labirinto che muta forma a ogni scantonamento, cambia il colore di una facciata, sorprende con la cadenza avventizia di certe finestre… Il polisensoriale Charles travasa la sua città nella scrittura. Dandy ozioso a zonzo, tra bohème e vagabondaggio, si sublima in un tipo di letterato intrasensibile – il flâneur – comparso per la prima volta a metà del XIX secolo a Parigi.

In quel tempo i comportamenti sociali ed economici, in progressivi mutamenti con l’ espandersi dell’industrializzazione, avevano indotto gli artisti a sprofondarsi nella metropoli divenendo «un botanico da marciapiede» (sempre Baudelaire) e mutandosi in «uno che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie di Parigi», secondo Walter Benjamin, altro sublime emblema di flâneur, esploratore dell’opera di Baudelaire e dei passages parigini nel memorabile Parigi capitale del XIX secolo: «La nostra indagine si propone di mostrare come in conseguenza di questa rappresentazione cosistica del processo di civilizzazione, le nuove forme di vita e le nuove creazioni a base economica e tecnica, che noi imputiamo al secolo trascorso, appartengano invece all’universo di una fantasmagoria».

I letterati flâneurs assuefatti alla città ammaliatrice sono i Viandanti di un volumetto intrigante di Edgardo Scott (Italo Svevo «Biblioteca di letteratura inutile», traduzione di Alessandro Gianetti, pp. 137, € 16,00), che rievocando vite e aneddoti ripercorrere la numerosa parade di scrittori, artisti e musicisti votati appunto al flâneurismo.

Scott è un argentino che oggi vive a Parigi. Probabilmente il mito della capitale francese lo ha attirato nel luogo geodetico dove, tipo medium, Baudelaire ne svelò lo spirito. In Viandanti Scott stesso si trasforma in flâneur tra le file di quei creatori di opere risultanti da camminate esplorative mentre intrasentivano, magari con soprassalti, il fluido creativo. Da questa «antologia raccontata» affiorano Robert Walser e il suo indimenticabile La passeggiata, Virginia Woolf, W. G. Sebald, e una «nuvola» di autori argentini – vista ovviamente l’origine di Scott –, da Borges a Robert Arlt. In apertura della sua passeggiata tra gli autori evocati egli confessa «il nostro debito infinito» nei confronti di Edgard Allan Poe. Nel racconto L’uomo della folla (1840) l’osservatore-narratore scorge tra la gente che passa un vecchio «i cui passi sono fatti di nebbia alata»: al suo occhio nulla sfugge, sottolineando silente il frenetico andare della mediocrità dei viventi. La moltitudine alienata. Un fluido più enigmatico che folle. E superando ogni inciampo temporaneo (ah, l’eternità del pensiero scritto!), Scott fa un’improvvisata al lettore, quasi un controcanto, evocando Benjamin: «La città moderna è un organismo e un linguaggio lubrico e vischioso».

Arrivato a Parigi, appare l’argentino Sarmiento, flâneur che insegue qualcosa che lui stesso ignora: «Je flâne, io cammino come uno spirito, come un elemento, come un corpo senz’anima in questa solitudine di Parigi…». Più scrittori si catapultarono nella Ville Lumière per l’attrazione che essa suscitava. Scott appare come sconcertato: «La città del flâneur è anche la città degli automi che presto si trasformeranno in robot, che poi diventeranno intelligenza artificiale fino al punto in cui ci troviamo adesso…». Viandanti sottintende perciò un rimpianto per il tramontato universo dei flâneurs, e denuncia la disattenzione della gente nei riguardi dovuti al proprio mondo. Avverte Scott: «Bisogna evitare il travestimento letterario. E per questo, ovviamente, bisogna essere disposti a non scrivere una sola riga».

Ma allora il flâneur fin dal suo esordio era forse un fantasma, una realtà duale, una certa irrealtà delle metropoli? Se lo chiedeva, tra gli scrittori qui evocati, Kenneth Bernard, autore di un racconto intitolato appunto Flâneur. Ultimo erede della flânerie, in ambito letterario novecentesco, sembrerebbe essere Paul Auster, che nella Trilogia di New York racconta di come il suo personaggio sia un passeggiatore solitario, indagatore del senso della vita in una metropoli surreale e alienante.
E nel nostro tempo, dov’è finito il flâneur? Forse si potrebbe passabilmente individuare la figura del cyberflâneur: il solitario «viandante», il navigatore della Rete che si intriga nel coacervo della realtà virtuale. Internet trasforma voyeurs in apparenti vagabondi, illusi indagatori che, ignorando l’esistenza di un oligopolio votato alla violazione della verità (per cui è quasi impossibile l’identificazione del vero e del falso), mutano il «trionfatore del Web in un propalatore della menzogna». Il contrario dei tanti Baudelaire che ambivano a metabolizzare la realtà della città in un’opera letteraria da scrivere.