Dopo la grande Retrospettiva al Festival di Locarno nell’agosto 2022 sull’opera di Douglas Sirk, nell’anniversario dei 125 anni dalla sua nascita e dei 35 dalla scomparsa, si torna ora a parlare anche in Italia del grande regista tedesco-hollywoodiano.

Il Sicilia Queer Filmfest ha promosso un ciclo di quattro suoi film a Palermo al Cinema Rouge et Noir, distribuiti in quattro appuntamenti sino alla fine di quest’anno – il tutto per imparare a conoscere e/o approfondire uno dei giganti della Storia del Cinema, quasi ignorato all’epoca e poi riscoperto negli anni Settanta grazie anche all’opera di un suo grande discepolo di nome Rainer Werner Fassbinder.

Ma andiamo per ordine a descrivere la carriera anzi le due (o tre) carriere del re del melò flamboyant degli anni Cinquanta. Nato ad Amburgo da genitori d’origine danese, Hans Detlef Sierck (1987-1987), nei Roaring Twenties della Repubblica di Weimar, aveva iniziato una brillante carriera di regista teatrale – un’esperienza che si rivelerà fondamentale nel suo successivo lavoro cinematografico. Nel 1934 passa a lavorare all’UFA, la grande Major del cinema tedesco classico, a corto di personale artistico dopo la grande e precipitosa fuga di registi, attori e tecnici di origine ebraica seguita alla presa del potere di Hitler nel 1933.

Personalità colta ma anche in grado di capire le esigenze spettacolari del cinema, Sierck, nel giro di un paio d’anni, realizza sette lungometraggi svariando dalla commedia ai drammi. Ma è solo quando si emancipa dalla sua formazione teatrale e letteraria per esplorare terreni più pop, che raggiunge risultati più felici e originali: con Schlussakkord (La nona sinfonia) vince la Coppa per il miglior film musicale alla Biennale di Venezia del 1936, poi dirige due e notevoli melodrammi esotici ma non scevri da influenze dell’ideologia nazionalista, interpretati dalla sostituta di Marlene Dietrich (emigrata in America), la cantante-attrice svedese Zarah Leander: Zu neuen Ufern (La prigioniera di Sydney, 1937) e La Habanera (Habanera, 1937). La prima parte della sua carriera termina qui, con la fuga dalla Germania nel 1937 mentre nelle sale si proiettava quest’ultimo film. Dato che aveva sposato in secondo nozze l’attrice di origini ebraiche Hilde Jary, il regista era minacciato, malgrado la sua notorietà, di restar vittima delle leggi razziali naziste insieme alla moglie.

Dopo alcune fugaci tappe in alcuni paesi europei, dal 1940 si trasferisce negli Stati Uniti, anglicizzando il suo nome in Douglas Sirk dove – come uno dei tanti emigranti tedeschi – avrà difficoltà ad inserirsi. Al suo primo film americano, un’opera antinazista e a low-budget, Hitler’s madman (1943), si susseguono lavori diversi, soprattutto quando, sotto contratto alla Universal dall’inizio degli anni Cinquanta, deve sperimentare, come di prammatica all’epoca, ogni genere possibile: dalla commedia al western, dal film di guerra al dramma religioso, dal peplum al film d’avventura – con alterne fortune. Ma, come in Germania negli anni Trenta, inizia presto ad eccellere nel melodramma grazie anche ad un team quasi stabile che sotto la guida del produttore Ross Hunter si componeva del direttore della fotografia Russell Metty, il consulente per il colore William Fritzsche e il musicista Frank Skinner oltre ad attori come Rock Hudson (con cui girò ben otto film), John Gavin o Lana Turner. Si trattava il più delle volte di remake a colori fiammeggianti dei film in bianco e nero diretti da John M. Stahl negli anni Trenta. In essi affina la critica sociale alla società americana, in particolare alla sua chiusa provincia, esibendo un peculiare, inconfondibile stile di regia dominato da una grande musicalità dell’immagine e da una ossessiva presenza degli specchi – per Sirk a partire dal mito greco di Narciso la prima occasione dell’uomo di riconoscere se stesso. Oltre a ciò, sondando e privilegiando protagonisti ambigui e bipolari, il bagaglio espressivo del nostro regista si caratterizza per l’uso della profondità di campo che crea curiosità nello spettatore e per la scelta di intrecci passionali estremi, insieme ad una eccellente direzione degli attori. Sulla base di questo spartito a forti tinte – in cui si mischiano rapporti familiari e d’amore, morte, malattia o supremi sacrifici – si dipanano, a partire dalla prima pietra miliare di Magnificent obsession (La magnifica ossessione, 1954), le sue opere più celebri che ne hanno fatto il sommo maestro del melodramma degli anni Cinquanta, da All that Heaven Allows (Secondo amore, 1955) a Written on the Wind (Come le foglie al vento, 1956) o Imitation of Life (Lo specchio della vita, 1959).

Ma poi colpo di scena alla fine degli anni Cinquanta: al culmine del successo decide di ritirarsi dal cinema per rientrare in Europa, e andare a vivere sul Lago di Lugano. Segue un rapido momento di oblio che però viene interrotto dalla riscoperta del suo cinema quando contemporaneamente nel 1971 esce il bel libro-intervista di John Halliday (pubblicato anche in italiano nel 2022 dal Saggiatore, Milano) e il celebre saggio di Rainer Werner Fassbinder Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk (ora in Rainer Werner Fassbinder, I film liberano la testa, Ubulibri Milano 1988). È l’inizio della riscoperta critica del regista amburghese che per altro realizzerà altri tre cortometraggi, tra il 1975 e il 1978, con i suoi allievi alla scuola di Cinema di Monaco dove insegnava.

Le caratteristiche e la grande qualità del cinema di Sirk sono ben illustrato dai quattro titoli scelti a Palermo a partire dal primo (il 27 settembre), un autentico capolavoro del melodramma qual è Lo specchio della vita, il lungometraggio conclusivo della carriera americana, con il duo Lana Turner e John Gavin protagonisti – un film che riassume già dal titolo originale, Imitation of Life, l’essenza camaleontica e magistrale, dell’opera del nostro regista. Se questo film non costituisce certo una sorpresa per i cinefili, lo sarà, invece, – garantisco un’autentica piccola scoperta – una commedia poco nota ma deliziosa, risalente al periodo precedente la nascita dei grandi melò, come Il capitalista (Has Anybody Seen My Gal? 1952, in programma il 25 ottobre). Qui Sirk, con grande leggerezza di tocco commediante, affonda l’artiglio critico contro la miseria morale della provincia americana e le chimere del denaro – bravissimi, per altro, gli interpreti come il «nonno» Charles Coburn, Piper Laurie e Rock Hudson in una delle sue prime interpretazioni.

Gli ultimi due appuntamenti, infine, rispettivamente l’8 novembre, con Il Trapezio della vita (The Tarnished Angels,1957) e infine il 6 dicembre con Tempo di vivere (A Time to Love and a Time to Die, sempre del 1957) completano in modo esemplare la piccola ma significativa retrospettiva del Sicilia Queer Filmfest. Entrambi – il primo in uno splendido b&n, il secondo in un fiammeggiante colore – innestano la matrice letteraria dentro i meccanismi del melodramma. Cosi, il romanzo Oggi si vola (1935) di William Faulkner, nelle mani di Sirk, dello scrittore-sceneggiatore George Zuckerman e dei protagonisti Rock Hudson, Robert Stack e Dorothy Malone si trasforma in uno straordinario mix di avventura aerea e amore perduto, il tutto permeato e avvolto in un cupa atmosfera di morte e di fatalismo – malgrado le critiche negative dell’epoca, Faulkner lo ha considerato il miglior film tratto da una sua opera, e a ragione. Con Tempo di vivere, infine, si riduce per lo schermo l’omonimo romanzo (1954) del connazionale Erich Maria Remarque costruendo un esemplare film modello di melodramma critico che ispirerà vent’anni dopo un semi remake, lo straordinario Die Ehe der Maria Braun (Il Matrimonio di Maria Braun, 1979) di Rainer Werner Fassbinder.