Józef Czapski, “Al telefono”, 1982

Ho conosciuto l’opera di Józef Czapski grazie al poeta polacco Adam Zagajewski: in un suo scritto ne parla come uno dei giusti. Józef Czapski è nato nel 1896 a Praga nella famiglia aristocratica polacca dei Conti Hutten-Czapski. È morto a Maisons-Laffitte, fuori Parigi, nel 1993. Possiamo dire che tutte le ferite del Novecento hanno trovato in lui il testimone di cui il «continuare a vivere» è vivere nella gioia, prendendo a prestito parole di Simone Weil, la cui opera accompagnerà Czapski tutta la vita, insieme a quella di Marcel Proust.
Infanzia vissuta tra Minsk e scuole a San Pietroburgo, scuola d’arte a Cracovia. Poliglotta, per due volte si è trovato incaricato nella ricerca di ufficiali polacchi scomparsi: nella Prima Guerra Mondiale le ricerche si indirizzavano solo a cinque ufficiali, nella Seconda Guerra Mondiale erano migliaia gli ufficiali scomparsi nel nulla, di cui Czapski fu incaricato della ricerca dal generale Wladyslaw Anders.
Negli ultimi tempi in Francia sono usciti ben tre libri su Józef Czapski. Il primo è un suo scritto, pubblicato già nel 1947, sulla ricerca degli ufficiali polacchi, oggi riproposto dalle edizioni Noir sur Blanc, dal titolo Terre Inhumaine (pp. 448, e 23,00). Il secondo, per la stessa casa editrice, una speciale biografia scritta da Eric Karpeles, dal titolo Jósef Czapski L’art et la vie (pp. 569, e 34,00). Il terzo è una collettanea di saggi, Eur’ORBEM Editions, dal titolo Józef Czapski Itinéraires de verité (pp. 362, e 22,75). Le parole che seguono vogliono sensibilizzare l’editoria italiana – che nel 2015 produsse già, per merito di Adelphi, Proust a Grjazovec – dell’urgenza di far conoscere più a fondo la personalità di quest’uomo che ha percorso la sua vita al servizio della verità. Anche perché ci appartiene un po’: ufficiale nell’armata polacca del generale Anders nel 1944 a Monte Cassino, che vince il nemico tedesco, liberando quelle che erano diventate le macerie di un monastero tra i più importanti d’Italia. Tutto ciò prima attraversare nella stessa armata l’Iran, l’Iraq, la Siria, la Palestina, l’Egitto.
Nel 1947 a Roma veniva pubblicato il primo numero di quella che è stata la più importante rivista culturale polacca in Europa: «Kultura». I numeri seguenti saranno tutti pubblicati nella sede di Maisons-Laffitte vicino Parigi, fondata da Jerzy Giedroyc e Gustaw Herling-Grudzinski.
Czapski scrive un saggio su Pierre Bonnard, morto da pochi mesi. Intanto, dal 1942, era impegnato con Terre Inhumaine, la descrizione precisa della sua ricerca dei cinquemila ufficiali polacchi scomparsi nel nulla in Russia. Professori fra i migliori, medici, intellettuali, professionisti… tutti massacrati. Czapski è uno dei pochissimi non gettato nelle fosse comuni con un colpo alla nuca. Il massacro delle fosse di Katin è diventato anche uno dei più strazianti film di Andrej Wajda: i russi informavano le famiglie degli scomparsi di raggiungerli. La stessa sorte spettava ai familiari, mogli, bambini, genitori. Queste le guerre, questo l’orrore dell’uomo contro l’uomo. Solo negli anni novanta la Russia ha fatto conoscere ufficialmente gli archivi del massacro, riconoscendo la colpevolezza delle fosse di Katin.
Czapski ha visto tutto questo. Lui stesso imprigionato per circa due anni nei campi di detenzione di Starobielsk, Pawliszczew Bor e Griazowietz, e proprio in questo campo a meno 40 gradi dava conferenze su Proust e l’arte ai suoi compagni di sorte. La fotografia del secolo scorso è quella della conferenza di Jalta in Crimea nel 1945, detta anche degli Argonauti, presenti Iosif Stalin, Franklin Roosevelt, Winston Churchill. Un nuovo totalitarismo sotto forma di spartizione «democratica» prendeva potere.
Józef Czapski è artista, scrittore, saggista, animatore e sostenitore della rivista «Kultura». Dal 1947, con sua sorella, si installa nella casa di Maisons-Laffitte, questo fino alla sua morte. La casa diventa sede della rivista «Kultura» e punto d’incontro degli intellettuali polacchi.
Dal suo diario: «Aspetto l’autobus in una strada grigia. La mia gioia di vivere? Questa parola senza dubbio significa: la volontà di vivere, di lavorare, nella solitudine ritrovata, essa si esprime in quello che respiro di nuovo col mio ritmo, di nuovo vedo, respiro dagli occhi».
Per le cause che conosciamo per anni aveva smesso di dipingere, il suo più grande desiderio. Vedere il mondo attraverso il proprio lavoro o vedere il lavoro attraverso il mondo? Che meraviglia aver cambiato mondo, che meraviglia vivere in un mondo non più come quello di prima, che meraviglia vivere nel dolore di questo nuovo mondo, dove tutti i valori del mondo di prima si sono vertiginosamente annientati di fronte alla realtà. Che meraviglia grammaticare i suoni di un linguaggio per un’altra realtà. Che meraviglia sapere di non essere più fratelli. Che meraviglia decifrare i germogli di questa realtà e cercare di essere di nuovo fratelli nel mondo cambiato. Per ritrovarsi fratelli occorre amare la vita. Józef Czapski ha amato la vita fino alla fine.
Nei suoi ultimi anni una degenerazione della vista gli provocò molti problemi, continuò il lavoro, le sue mani guidate dalla vista malferma ci hanno donato luminosità visive: ogni segno su una superficie dipinta è un germe di fratellanza, voler parlare soprattutto nella disperazione, cercando speranza nell’uomo non facendoci mai dimenticare che siamo scolari di fronte alla vita. I colori scelti da Czapski sembrano una liquida escrescenza umorale, calpestata nel cammino dell’esistenza di un destino. Ogni rosso, ogni verde, ogni giallo, ogni acerbità cromatica, un condensato di carne viva. Il drammatico sanguinare degli occhi che hanno visto, pòrto al nostro sguardo: Czapski squarcia le tele con la lama affilata del dolore fattosi colore. Ha lavorato per i giorni di sempre, i nostri di ora, quella dei nipoti di dopodomani. Nella sua stanza «tutto» di Maisons-Laffitte ha lasciato 268 quaderni della lunghezza di sette metri, la lunghezza di un muro della stanza: la scrittura di questi quaderni ci indica il suo vivere sismografico per rilevare le placche oscure del quotidiano. Torna tutto agli occhi, a quelle due pozzanghere incastonate nel volto. Quei due zerbini che chiedono pietà di ciò che hanno visto e vedono. Vorrebbero guidarci verso altri orizzonti ma non hanno mani per spingerci su altri cammini.
Ed ecco lo sguardo, ecco gli occhi di Czapski, attraversando per circa un secolo il fango unito al sangue lasciato dai lupi contro l’umanità: quello sguardo e quelle mani possono ora curarci, indicarci altri cammini. Inserendo la nostra sensibilità nelle sue parole, nei suoi tagli di pitture, composizioni che possono indicare ai nostri occhi di riprendere il dialogo civile con le cose. Decifrare da questa testimonianza umana, e portare alla luce i sentimenti calpestati è compito della ragione, di quel sentimento che ci rende tutti simili.
Józef Czapski ci ha donato le sue giornate, scintille di ragione che possiamo inserire nel nostro quotidiano. Il lavoro di Czapski insemina la vitalità del pensiero, l’alba di cui ora abbiamo bisogno.