Cusumano, umanità scassata in retabli e riti battezzati da Nitsch
Nell’estate del 1992, un giovane palermitano, che da qualche anno studia a Salisburgo per diventare pittore, segue un corso estivo dell’Accademia di Belle Arti nella città austriaca. È lì che incontra Hermann Nitsch, che come professore di «pittura gestuale» si rivela ben diverso da tutti i docenti conosciuti fino ad allora. «Non era possibile fare altro che dipingere o uscire dagli argini della gestualità o della corporeità. Doveva essere un’esperienza pittorica intensa, immersiva, totale», ricorda Cusumano. Nitsch ha già attorno a sé un’aura sciamanica, non parla di tecniche pittoriche, ma di filosofia, teatro, musica e letteratura, con metodo e precisione, rendendo tutto sincretico per i giovani che si avvicinano a lui.
L’incontro è destinato a produrre un legame duraturo e una storia fitta di altri movimenti, che ora sono ripercorribili grazie a una retrospettiva che si tiene al Museo Nitsch di Mistelbach, Andrea Cusumano. Raumdramaturgie (fino al 20 maggio, a cura di Giulia Ingarao e Fabio Cavallucci, catalogo Silvana).
Il primo, decisivo capitolo è quello delle Installazioni dei morti: la serie ha inizio nelle kasematten del castello di Hohensalzburg (1993), poi approda nella chiesa palermitana di San Niccolò del Gurgo (1996) e prende il largo tornando nelle soffitte di Prinzendorf (1998), il castello che Nitsch elegge come cuore pulsante delle sue azioni e di tutta la sua poetica. In mostra i resti in ceramica di queste Pompei immaginarie sono improvvisamente richiamati a dialogare come fossero morti da consultare di nuovo, anche perché si specchiano in trittici dipinti tutti a gesti che misurano tre metri per quattro, come un’Ultima Cena del ’94.
Dal ’98 Cusumano diviene un fulcro del cosmo di Nitsch: proprio in quell’anno prende corpo la partitura del primo 6-Tages-Spiel, la cerimonia che purifica con vino, corpi e sangue i sensi dei convenuti. E soprattutto, dopo aver assistito nella scrittura della partitura, il palermitano diventa il direttore d’orchestra di riferimento di tutto il repertorio musicale dell’artista austriaco, in una carriera che vede maestro e allievo sconfinare in concerti e azioni dislocati dall’Hamburger Banhof all’Avana, da Città del Messico al Museo Nitsch di Napoli.
Una posizione privilegiata, quindi, ma solo se si riesce a sfuggire alla tentazione dell’ortodossia – e Cusumano arricchisce il suo bagaglio includendo presto altri giganti nel suo laboratorio. Tadeusz Kantor era morto più di dieci anni prima, ma a Cracovia c’era ancora la sua Cricoteka, dove si poteva incontrare Mira Rychlicka e studiare come trasformare il teatro in una serie di indicazioni drammaturgiche da sviluppare negli spazi, per arricchire di psicologia o di mistero il volto di chi in scena compie un atto. Ma c’è dietro anche Grotowski, con il suo sacralizzare la performance, come sottolinea Eugenio Viola in catalogo.
In mostra queste prime scritture teatrali di Cusumano si sfarinano in opere, come se la pittura potesse rapprendere tutte le stagioni creative e costruire un’enciclopedia portatile. Tumor Foderato d’infanzia (2006), che ha come protagonista la leggendaria attrice polacca di Kantor, e The Bitter Belief of Cotrone the Magician, che si guadagna la prima pagina del Guardian quando va al Fringe di Edimburgo (2009), producono un immaginario di maschere e oggetti che si impiglia immediatamente nel visivo.
Un’altra domanda che scardina certezze e pone nuovamente l’artista a un bivio arriva da Pete Brook: «Hai mai immaginato di dare una dimensione diacronica al tuo lavoro sullo spazio?». Diventa una formula valida per scavare nella drammaturgia: ogni testo teatrale viene scomposto nelle sue componenti psicologiche, localizzandole sullo spazio scenico, ibridando performance, installazione e pura immagine. Così, quando si ritorna alla pittura, quasi un’incontrastabile musa fra tante per Cusumano, l’attraversamento di partiture, sonorità, gesti e azioni sceniche ha comportato un cospicuo arricchimento ma anche, come destino, un approdo pacifico. Proprio come i relitti, i pupazzi, le deformazioni e i ricordi di segni possono comporre retabli – così li chiama l’artista – da un’altra prospettiva, subentrano razionalizzazioni artificiali chiamate a raccogliere tutta l’energia di un vissuto, che occasionalmente si ritrova imbalsamato a parete.
La mostra abbonda di questi congegni anche perché la disposizione in uno spazio a navata unica ne facilita la visione – questo diorama di invenzioni e fantasie si può percorrere in lungo e in largo. Solo due video documentano performances del passato: uno di questi è forse il lavoro più celebre di Cusumano, Le ali della farfalla (2010), realizzato al Madre con Marino Fromenti per il Napoli Teatro Festival. L’artista ora prende le sembianze di Carl Tanzel von Cosel (1877-1952), un conte che lascia la Germania per la Florida, e lì muore di tubercolosi la sua amata, ma il corpo sarà tenuto in vita per sette anni, con «corde di pianoforte per unire le ossa», «occhi di vetro» e «un tubo per continuare ad avere rapporti sessuali». Cusumano fonde questo personaggio in un altro campione della «relazione oggettuale disfunzionale»: il Don Giovanni di Mozart. Nel retablo Le Ali della Farfalla (2013-’17) la donna-oggetto è ancora vestita da sposa, stanca di essere sezionata, mentre attorno si affollano burattini, guanti e vecchie foto.
Questi altari di una contemporaneità scassata, a forma di mostro, squadernano ampie porzioni di nero (Retablo amaro, 2013-’20, Retablo Petit Cheval, 2020) o di bianco, ideale per appendere al chiodo la maschera e qualche stoffa (uno dei più belli è il Retablo Wiligelmo, 2021). Pittura teatrale o teatro della pittura? Certo è che l’una e l’altro qui non perdono di sacralità, anzi gli ultimi apporti in ordine di tempo arrivano in particolare dal Kerala, con i suoi riti performativi trasmessi nella scuola del Kalamandalam, che Cusumano studia con soggiorni ripetuti fra il 2009 e il 2013, mentre è professore di Scenografia e Teatro visivo in vari atenei londinesi.
Così arriva una quadrilogia di lavori – Tragödia: Il Principe (2014), La Regina (2021), Il Re (2021) e Atto IV (2023) – dove la tragedia greca si mischia ogni volta con una diversa tradizione tribale indiana. Il corrispettivo visivo sono ora gli Ostrakon, tavolette di terracotta incise e dipinte, che qualche volta sono impreziosite da cera e vetro, quasi a iscrivere con immediatezza tutte le tappe di un percorso, oppure i Crateri, altri rimandi a un mondo greco che si avvicina con la sua attualità dionisiaca, sempre attraverso Nitsch e le colline austriache in cui questa parabola artistica è ora immersa.
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