Se la Los Angeles del futuro secondo Spike Jonze è un pianeta di spazi luminosi, aria respirabile, tecnologie leggere, colori vivaci e legni chiari, immaginato con l’aiuto del visionario studio archittettonico newyorkese Diller Scofidio + Refro, la Braddock del presente, nel film di Scott Cooper Out of the Furnace (passato qualche giorno fa al festival dell’American Film Insitute di Los Angeles e adesso in concorso a Roma), è un luogo decrepito, opprimente, una palude di miseria, dove i detriti della rivoluzione industriale ti incrostano polmoni e anima.

Alla cittadina proletaria della Pennsylvania, caduta in disgrazia con il declino delle sue acciaierie, ha dedicato, a partire dai primi anni settanta, un intero ciclo di film il collaboratore di George Romero Tony Buba. La più famosa di queste vignette minimal, a tratti umoristiche, di faticoso quotidiano blue collar rimane probabilmente il lungometraggio Lightning Over Braddock. Ma Cooper (regista dello struggente country film Crazy Heart) pensa piuttosto a The Deer Hunter, ambientato anche lui nella stessa rust belt, la «cintura di ruggine», con cui si identifica la regione del Nord East degli States più colpita dalla depressione economica e demografica dell’era postindustriale. Come nel film di Michael Cimino, Out of the Furnace ha un soldato che torna dalla guerra, Rodney Baze (Casey Affleck).

Non è il Vietnam ma l’Iraq, dove Rodney è finito per tre ben turni di combattimento, per sottrarsi alle grinfie della Carrie Furnace, l’acciaieria dove lavora suo fratello Russell (Christian Bale), che ha ucciso suo padre e portato in fin di vita lo zio (Sam Shepard). In attesa di essere richiamato per la quarta volta al fronte, Rodney vibra della tensione di una corda di violino che sta per rompersi – lo sguardo già oltre. E inganna il tempo accumulando debiti a forza di scommesse, con la complicità riluttante di un biscazziere sui generis interpretato da Willem Dafoe. In teoria, Russell è il bravo ragazzo della famiglia –sollecito con zio e fratello e seriamente innamorato di Zoe Saldana. Ma rigare dritto a Braddock non serve a niente: in seguito a un incidente d’auto, Russsell viene condannato per omicidio colposo. Quando esce di prigione, la fidanzata lo ha lasciato per il capo della polizia locale (un dolente Forest Whitaker); suo fratello è già andato a tornato dall’Iraq un’altra volta, ed è sempre più fuori..

Out of the Furnace è uno di quei film con su scritto dead end, strada senza uscita, praticamente nei titoli di testa –l’implicazione che da questa fornace non c’è out. Quindi le cose possono solo andare peggio. Ma, invece di spegnersi subito in una tristezza micidiale, si alzano di decibel con l’ingresso di Rodney, sempre più indebitato, sul circuito dei combattimenti illegali a pugni nudi (quelli del magnifico, austero, film di Walter Hill Hard Times) e l’entrata in scena di Harlan DeGroat (Woody Harrelson) un bruto di ferocia tale che, mentre il film si sposta da Braddock verso Nord, in sperdute montagne del New Jersey, e ai fumi postindustriali si sovrappongono quelli della metanfetamina, si passa in un soffio da The Deer Hunter al gotico iperbolico di Deliverance e ai gironi infernali di The Silence of the Lambs.

Scott Cooper ha iniziato la sua carriera facendo l’attore e gli attori sono la sua passione – a lui il merito di aver portato il primo Oscar a Jeff Bridges, nella parte del chitarrista alcolico di Crazy Heart.
Bale, Affleck e Harrelson affondano i denti nelle miseria, nella violenza e nella tristezza sconfinata di tanto determinismo come se fosse una bistecca extra large. Ci nuotano come in una vasca di whiskey da poco fatto in casa. Non c’è nulla di insincero o «sbagliato» nel loro lavoro e in quello di Cooper (che ha riscritto la sceneggiatura di Brad Iglesby). La fotografia ipersatura, a grana grossa, di Masanobu Takayanagi rende bene il paesaggio claustrofobico, l’impressione (anche visiva) di una polvere nera che copre tutto fino all’asfissia.

Lo stesso vale per le musiche di Dickon Hinchliffe (Winter’s Bone). Ma è come se Out of the Furnace non avesse un punto di vista aldilà del suo naturalismo –onesto e déjà vu. In prospettiva, il leggero humor e l’asciuttezza di Dallas Buyers Club (un altro film come questo tipico di una vena contemporanea del cinema «indipendente» Usa dominata dagli attori e molto influenzata dagli anni settanta) sembrano intuizioni geniali.