Cultura e lessico Woke hanno usurpato la dialettica ‘classe lavoratrice’-capitalisti
da Nottetempo «Guerre culturali e neoliberismo», un saggio di Mimmo Cangiano
da Nottetempo «Guerre culturali e neoliberismo», un saggio di Mimmo Cangiano
Leggerlo oggi, quando nei campus divampano proteste dalla lunga incubazione e si issano cartelli pro-Palestina o rilanciando parole d’ordine che la cultura woke ha iniziato a scandire decenni fa, insinua qualche dubbio di anacronismo. La situazione in molte Università negli States è cambiata, registra radicalizzazioni che covavano sotto la cenere, e ha trovato slogan unificanti contro un nuovo Vietnam. Invece questo densissimo Guerre culturali e neoliberismo (nottetempo, pp. 192, €17,00), a metà tra resoconto diaristico e riflessione filosofica, che Mimmo Cangiano (casertano, 43 anni, docente a Ca’ Foscari di critica letteraria e letterature comparate) tratta temi più attuali che mai con rara incisività.
Descrive debolezze e potenzialità delle culture wars sulla base dell’esperienza diretta di quasi dieci anni di insegnamento e confronti tra studenti e professori degli atenei d’oltreoceano. E nell’introduzione mette subito in guardia. Oggetti delle sue note non saranno la deprecata e talvolta grottesca (ma diffusissima) cancel culture, né soltanto le battaglie ingaggiate su questioni identitarie di gruppi etnici, classiste, anti-razziste, antisessiste, o condotte all’insegna di un proteiforme postmodernismo oppure all’ombra della French Theory dei post-strutturalisti francesi.
E neppure insisterà su cultural studies, gender studies, queer studies alla ribalta dagli anni settanta. Con l’acume estesamente dimostrato nel ponderoso Cultura di destra e società di massa. Europa 1870-1939 (2022), Cangiano qui si concentra su un inquietante problema di strategia, che investe le forze che più o meno si collocano a sinistra, ma non è estraneo a differenti, se non opposti, ambienti.
Non esiste il rischio che la dimensione woke ignori i fondamenti materiali di un capitalismo malandato ma totalizzante, trasformistico e mimetico, in grado di annettersi, magari ipocritamente, rivendicazioni antagonistiche? Il «culturalismo» non si presta a seminare illusioni e a offuscare o rimuovere, nel pensiero e nell’azione politica, i rapporti di produzione che stanno alla base di disuguaglianze crescenti e cinici sfruttamenti?
Non sussiste il rischio che la sensibilità etica – da noi si direbbe il buonismo – impedisca di mettere all’ordine del giorno un marxismo rinnovato all’altezza dei tempi? Anzi, per dirla alla buona con un termine che viene pronunciato malvolentieri, rimuova il materialismo di processi e condizioni che si attribuiscono a un passato industrialista ben lontano dall’essere il motore di una storia «finita»?
Do la parola all’autore trascrivendo uno dei passi più espliciti del suo martellante discorso: «Cultura e ideologia usurpano progressivamente le posizioni in precedenza assegnate ai due motori di prassi contrapposti: classe lavoratrice e capitalisti». E aggiunge: «La battaglia simbolica, di conseguenza, si pone sempre più al centro sia del dibattito intellettuale sia del contrasto politico». L’autore sa bene che una ripresa dell’interpretazione della realtà effettuale avvalendosi di categorie fordiste sarebbe fuori dalla non circoscrivibile gabbia mediatica in cui ci aggiriamo.
Le forme del capitalismo si sono dislocate e nascoste al punto di essersi come naturalizzate agli occhi di una manipolata opinione pubblica. E quanto alla classe – meglio alle classi – la dispersione e la liquefazione dei rapporti l’hanno frammentate in segmenti che non formano un popolo. Infondate le lamentazioni di chi grida allo scandalo perché non esiste da noi un partito democratico della sinistra in quanto privo di «popolo»: nobile categoria ottocentesca. A meno che non si voglia sostituire con una moltitudine che non si presenterebbe certo come corpo dotato di compattezza e unità.
Abbiamo naturalizzato il capitalismo-potere accedendo a un «essenzialismo di ritorno» secondo l’espressione della creativa scrittura dell’autore: sicché si è spinti a pensare che ne sia impossibile il rovesciamento: al più si tenteranno correzioni o ci si contenterà di una sorta di galateo semantico. Il lessico woke designa movimenti per i diritti civili e per una sequela di diritti di nuovissimo conio tutt’altro che inutili. Ma il loro sbocco non andrà oltre i limiti entro cui si agita. «Questo, ovviamente non significa – osserva Cangiano –, come un marxismo volgare ha creduto, che la lotta culturale sia inutile, ma significa che, se questa non viene intesa in relazione dialettica con il piano dalla produzione, del mercato, del consumo, la sua risultante sarà liberale».
Conclusione meno apocalittica e cupa di quanto pareva profetizzabile dopo le curiose esplorazioni accademiche americane. «La mancata riflessione – egli ha ribadito in una recente intervista – sul rapporto dialettico fra piano della produzione delle idee e piano della loro socializzazione (fuori dalle “bolle” dei social), inevitabilmente incancrenisce la lotta proprio lasciandola sul mero piano “culturalista”, e crea quei fenomeni di irrigidimento moralistico che ormai conosciamo bene anche in Italia. La politica lascia il posto all’etica, e questa spesso si riduce a un atteggiamento di accusa verso chi non è (o non è abbastanza) woke».
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