Più lunghe cadono le ombre sugli studi classici italiani, e più rari si fanno i libri importanti, in un paese privo di memorie ma vivace di risentimenti. Vi è ancora chi s’impegna a preservare il senso della cultura: lo prova la riproposta, a cura di Stefano Grazzini e Giovanni Niccoli, di una serie di scritti di Antonio La Penna relativi a Filologia e studi classici in Italia tra Ottocento e Novecento (Della Porta Editori, pp. XI-566, euro 32,00). Dopo questo, incentrato su Orientamenti, istituzioni, temi, un secondo volume, su Maestri e metodi, è in preparazione. Sono pagine scritte lungo un cinquantennio, soprattutto negli anni settanta e ottanta, che il metodo di ricerca riconduce in unità, con molta naturalezza: i saggi non sono disposti in ordine cronologico, ma tematico (e riproposti con pochi ritocchi editoriali). L’approccio di La Penna è rimasto alquanto coerente nei decenni, sì che il lettore non avverte sbalzi di toni e di idee. Complementari studi inquadrano la storia e la funzione degli studi classici in Italia, dall’Unità alla Grande guerra europea e poi fino alla metà del Novecento: un percorso incentrato sugli studi filologico-letterari, con prevalenza del latino.

Si parte dall’Ottocento, mostrando come la filologia tedesca insegnò la «diffidenza» verso i dati della tradizione. L’apporto critico talvolta portò allo scetticismo (la cosiddetta ars nesciendi), ma abbe importanza enorme. In Italia, la filologia e poi il positivismo agirono sul classicismo della tradizione, spesso ‘pretesca’. Il paradigma antico innervò così talune istanze risorgimentali, e più tardi sorresse il nazionalismo di età umbertina (e poi, per quella via, anche il fascismo). Il rapporto tra la cultura italiana e la Methode filologica tedesca è tema cruciale, che compare più volte nel volume. Con il declino del classicismo settecentesco e della cultura antiquaria, l’erudizione italiana era ridotta a poche voci, con i limiti sperimentati da Niebuhr o Leopardi nella Roma della Restaurazione. La rinascita degli studi avvenne alla scuola della filologia classica tedesca. Essa determinò un grande progresso tecnico che, pur con eccessi, portò l’Italia entro la fine del secolo a conquistare una linea di ricerca «indipendente»: la produzione nostrana però non sempre ottenne (al tempo e nemmeno dopo) riconoscimento internazionale adeguato, per effetto di disorganizzazione e discontinuità di iniziative.

Un denso saggio ripercorre il dibattito sul valore della poesia cortigiana, attraverso i giudizi espressi tra Germania e Italia nel XIX e XX secolo: la condanna della «Musa appigionata» trascinava con sé quella di larga parte della letteratura latina, colpevole di essere secondaria e imitativa: ne fecero le spese, dopo gli allori settecenteschi, soprattutto Virgilio e Orazio. In Italia, dopo che Alfieri e Foscolo avevano denunciato i rischi del mecenatismo, l’idealismo e il nazionalismo difesero la qualità (e poi l’originalità) della produzione latina. Nel caso di Giovenale, i temi delle satire furono esaminati in modi diversi nei due paesi: soprattutto in Italia, il poeta apparve una voce di libertà e opposizione al dispotismo, e in tali termini ne parlarono figure influenti come Carducci e Marchesi (cui pure era chiaro che dietro l’aggressività del poeta satirico stava una posizione conservatrice). Il confronto tra il «metodo scientifico» e la «retorica umanistica» si ripropose più volte, con cicliche polemiche contro le ‘tedescherie’, accusate di aridità e di insensibilità ai valori estetici. Rispetto a tali contese, un equilibrio ideale di metodo filologico e ricerca viene riconosciuto nella figura di Giorgio Pasquali (1885-1952), di cui La Penna conobbe il magistero universitario.

Rilevanti casi di studio vengono dalla cultura e dall’editoria di Firenze, che a partire dall’Ottocento fu, insieme a Torino, il centro della ricerca filologica italiana. La «Toscanina», già granducale (e moderata), seppe contribuire alla cultura nazionale: lo provano la presenza dell’antichità nella «Antologia» del Vieusseux, le edizioni di classici greci e latini, stampate per lungo tempo da Barbera, Le Monnier e Sansoni, e gli studi letterari (pagine oggi dimenticate di Atto Vannucci o di Gaetano Trezza contengono osservazioni significative sulla letteratura latina). Era una cultura ancora di dimensioni locali (per qualcuno il fiorentino era «la più plautina delle lingue moderne»), ma seppe a lungo contribuire alla costruzione di una italianità, comunque definita, attraverso i temi dell’antico: gli studi classici avevano un fondamento «nazionale», che il tecnicismo filologico ha spesso trascurato. Da Firenze vennero anche importanti manuali e moltissimi commenti per la scuola e l’università: tale produzione fiorì per decenni e coinvolse «talvolta studiosi, talvolta mestieranti più o meno abili». Estremo frutto di quella stagione sono le preziose antologie che La Penna dedicò a Orazio (1969) e Virgilio (1971).

Anche la facoltà letteraria di Firenze è oggetto di studio, attraverso i grandissimi che vi operarono dall’Unità in poi (soprattutto Girolamo Vitelli, Pasquali, Giacomo Devoto, Bruno Migliorini). La Penna ricorda accanto a loro anche quelli per i quali l’insegnamento era «dignitosa routine», e nota quanto pesò (non solo a Firenze) la frattura della Seconda guerra mondiale, che lasciò vari studiosi «stanchi e scientificamente esausti». Nei decenni successivi, invece, le università non furono sempre in grado di venire incontro a nuove urgenze culturali (e politiche). Vi è un ripensamento anche delle tendenze recenti nella ricerca e nella scuola (tema su cui La Penna già scrisse Sulla scuola, Laterza 1999). Negli anni cinquanta vi era fiducia nella svolta che lo storicismo e la filologia avrebbero apportato alla cultura italiana, profondamente segnata dal fascismo e dall’idealismo: non sarebbe prevalsa nemmeno la lettura strutturalista, colpevole di essere astorica e capace di cogliere nei testi elementi «della facciata o del guscio».

Invece di quella palingenesi, subentrò dagli anni sessanta una crisi degli studi umanistici, di fatto mai ricomposta, che ha condotto verso la corrente dissoluzione. La Penna credeva fermamente nel valore del liceo classico, tanto da ritenere lo scientifico un «doppione scialbo e incoerente». Agli dèi è parso altrimenti, né egli poteva immaginare come il classico sarebbe stato smantellato nel secolo presente, complici sinistra e destra. Quanto alla filologia, nel Novecento aveva saputo affermarsi come pensiero critico, alimentandosi delle sollecitazioni del materialismo e dello strutturalismo, ma senza riuscire a liberare gli studi classici dal legame con prospettive di conservazione (o addirittura di «reazione sociale»). Al principio di questo secolo, La Penna poteva mostrare fiducia nel livello dell’alta ricerca, mentre incerto gli appariva il destino della cultura storico-letteraria, travolta dalle «spinte della cultura di massa» e dalle disastrose riforme dell’insegnamento. La crisi si è oggi approfondita, per compressione di risorse, di motivazione, di competenze: improbabile che ritornino spazi per lavori che richiedono tempo e studio, non il rispetto di criteri quantitativi o la ricerca di facile popolarità.

Le pagine qui riproposte furono pubblicate in sedi autorevoli, ma che hanno forse limitato finora la circolazione e l’efficacia di queste riflessioni: ciò vale sia per i profili storici, sia per i temi che hanno conosciuto, poi, ulteriori ripensamenti. La Penna contribuì, negli anni settanta, alla nascente riflessione degli antichisti sull’età dell’imperialismo e del fascismo. Il tema, oggi indagatissimo, torna in un saggio (1999) relativo alla rivista «Roma» (1923-1944), esempio dello stretto e documentato legame tra nazionalismo cattolico e fascismo: la «romanità» fascista predilesse l’età imperiale, con un approccio nazionalista e avverso al paganesimo e al «meticciato». Il periodico emanava dall’Istituto di Studi Romani: vi collaboravano anche alcuni studiosi seri, ma quelle pagine servono a capire le idee del fascismo, non la cultura antica. Oggi l’interesse verso quella fase del classicismo italiano è ampio, ma in precedenza tale lettura «politica» degli studi non era usuale. Nel 1964, discutendo di un latinista tedesco alle prese con concetti chiave della romanità (pietas, imperium e altri), La Penna rilevava i limiti di approccio e notava il conservatorismo politico estremo: ma senza dire esplicitamente che Hans Drexler (vivente al tempo) era stato un convinto e attivissimo nazista. È questo uno degli scarti «sia d’impostazione che d’interpretazione» rispetto alla data di stesura dei saggi ristampati: ma anche qui l’analisi di La Penna regge bene. La fedeltà allo storicismo tempera le istanze ideologiche (più evidenti negli anni settanta) attraverso sguardo fermo, informazione solida, documentazione ampia. I giudizi sono talora severi, liberi da carità municipali e da omaggi immotivati, ma con riserve importanti su studiosi culturalmente lontani o non abbastanza «filologi» (Aldo Ferrabino, Armando Plebe, Augusto Rostagni; ne busca persino Concetto Marchesi, come editore di testi): è proficuo il dialogo con Sebastiano Timpanaro, più raro quello con Treves o Momigliano. Quando sarà pubblicata anche la seconda valva del dittico, risulterà ancora più chiaro il senso di questi contributi sulla funzione della cultura classica italiana. Se questo paese ritroverà un giorno il bisogno di pensare a sé, dopo l’esplosione verso la storia globale (che segue agende allogene), e dopo l’involuzione verso idee retrive di «nazione», la storia e la filologia potrebbero essere un solido punto di ripartenza. Se non è, già ora, troppo tardi.