Editoriale

Crudeltà crescenti

Il 2014 è stato l’anno delle crudeltà crescenti. La guerra non si è arrestata come mezzo di risoluzione delle crisi ed è riesplosa, dopo il disastro balcanico degli anni Novanta, […]

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 31 dicembre 2014

Il 2014 è stato l’anno delle crudeltà crescenti. La guerra non si è arrestata come mezzo di risoluzione delle crisi ed è riesplosa, dopo il disastro balcanico degli anni Novanta, ancora una volta in terra europea.

È stato infatti l’anno dell’Ucraina, dove la protesta contro il presidente Yanukovich, che vedeva in piazza tutti i settori della società ucraina, è diventata alla fine violenta e armata, con una forte presenza dell’estrema destra xenofoba e neonazista e soprattutto nazionalista ucraina in contrapposizione non solo alla Russia di Vladimir Putin ma fatto ben più grave alla forte componente russa interna all’Ucraina, di lingua russa e apertamente filorussa, quasi il 40% della popolazione e maggioranza nelle regioni dell’est e dall’economia fortemente collegata a quella russa. Uno scontro che provocherà alla fine la dichiarazione di secessione del Donbass. Su piazza Majdan era comparsa da febbraio l’intera leadeship mondiale a soffiare sul fuoco della rivolta, e la destra americana capitanata dal senatore repubblicano McCain che apriva così la sua campagna elettorale per le elezioni di midterm, subito rincorso da Obama che inviava da marzo su Majdan lo staff dell’intelligence Usa e lo stesso capo della Cia John Brennan. L’Unione europea, senza politica estera di fatto e alle prese con la sua crisi economica, a fine 2013 aveva di fatto innescato la miccia voltando le spalle alle richieste di Kiev di un prestito che garantisse la crisi ucraina dal default salvaguardando la possibilità che il paese rimanesse insieme neutrale, fuori dai blocchi, e ancorato economicamente sia all’Ue che alla Csi, la Comunità degli stati indipendenti.

Così la Ue si è consegnata nelle mani della Nato che dalla fine dell’89 invece di sciogliersi si è rilanciata con la guerra «umanitaria» del 1999 contro l’ex Jugoslavia, ridislocando alla frontiera russa e in tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, basi militari, sistemi d’arma, avvio di scudo antimissile, ferreo controllo dei bilanci militari e rilancio del mercato della armi Usa.

La reazione della Russia è stata dura con la riannessione della Crimea, già provincia russa e il sostegno logistico agli indipendentisti delle regioni dell’est, subendo per questo sanzioni e ricatti. Ora dalle 80 vittime della repressione di piazza Majdan e dalle 40 vittime della strage di Odessa ad opera dei gruppi neonazisti, siamo a più di cinquemila morti di una guerra civile senza esclusione di colpi. Mentre il nuovo governo di Kiev sta erigendo un nuovo muro al confine russo e il parlamento vota la fine della neutralità verso l’adesione alla Nato, vale a dire l’organismo «responsabile della crisi ucraina, denuncia l’ultimo numero della prestigiosa rivista americana Foreign Affairs.

A somma di crudeltà, il 2014 è stato anche l’anno della nascita dello Stato islamico (Isis), il Califfato. Una nascita sorprendente? Mica tanto. Se solo si riflette sul disastro provocato dall’intervento militare della Nato contro Gheddafi nel 2011, in aperto sostegno agli insorti islamisti. Ora la Libia è nel caos di una guerra civile feroce, mentre in Cirenaica è stato proclamato l’«Emirato islamico» e Bengasi è il santuario di armi e miliziani che alimenta la guerra civile in Siria. Dove gli «Amici della Siria», cioè buona parte dell’Occidente a guida Usa e le petromonarchie sunnite hanno tentato, non riuscendoci, la stessa operazione libica. A costo di decine di migliaia di morti, per gran parte civili. L’Isis è nato da quella devastazione, prima in Siria e grazie alle armi e all’addestramento nelle basi militari della Turchia (baluardo Nato), poi nel nord dell’Iraq. Eppure con l’uccisione di Osama bin Laden, Al Qaeda era una «missione compiuta» dell’Amministrazione americana, invece è rinata con migliaia di miliziani di Al Nusra in Siria e si è inverata in un nuovo scellerato e giovane movimento ultra-islamista, il Califfato, in Iraq – proprio nelle zone, come Falluja, che videro le imprese sanguinose dell’occupazione e della guerra americana. Ora per combatterlo corrono ai ripari bombardandoli, cioè bombardano l’impresa degli «Amici della Siria» che hanno messo in piedi, e aiutando al ribasso i combattenti kurdi che finora l’Occidente ha considerato «terroristi». Un rovescio per gli Usa, che hanno visto con il disastro libico e l’assassinio dell’ambasciatore Usa Chris Stevens l’uscita di scena del segretario di stato Hillary Clinton e il capo della Cia David Petraeus; e con quello siriano-iracheno, la defenestrazione del capo del Pentagono Chuck Hagel.

Come se non bastasse la crudeltà già sul campo, l’estate scorsa abbiamo assistito ad un nuovo massacro di palestinesi a Gaza. L’operazione «Margine protettivo» del governo israeliano d’estrema destra di Benjamin Netanyahu, lanciata ufficialmente per fermare i lanci di razzi di Hamas, in realtà per impedire sul nascere il governo di unità nazionale palestinese tra Fatah e Hamas, ha provocato 2.200 morti, settemila feriti, 89mila case distrutte, semidistruute e lesionate. Nel silenzio della comunità internazionale e dell’Italia che, fanalino di coda in Europa, non osa affrontare il nodo della nascita dello Stato di Palestina. Ultima ma proprio ultima la strage di pochi giorni fa di Peshawar dei talebani pakistani, a ricordare che la scia di sangue della guerra in Afghanistan, dove gli Stati uniti restano in armi, ritorna lì dove il movimento talebano è stato inventato. Si dirà che alla fine c’è una novità non crudele: il disgelo e l’annuncio di ripresa dei rapporti diplomatici fatto da Obama tra Cuba e Usa. Certo la speranza è grande, soprattutto all’Avana. Ma la vittoria repubblicana nelle elezioni americane di midterm dice che la loro forza in maggioranza nelle due Camere Usa si opporrà perché il disgelo sia reale e venga abrogata la legge Helms-Burton che impedisce gli scambi economici. E poi c’è la ripresa Usa, il Pil che aumenta del 5%.

Così il mondo si ritroverà un’America più ricca (per i ricchi), con maggiore capacità di far pagare i costi della crisi (e quelli militari) altrove, come in Europa (v. la vicenda South Stream), più socialmente fragile visto che le riforme di Obama, come quella decisiva della sanità, non sono passate, e insieme più razzista come dimostra la litania di uccisioni di afroamericani, quasi una guerra civile, da parte della polizia. Davvero appena uno spiraglio di luce si apre ritorna il buio. Facciamo che cresca la speranza, impediamo che resti solo la prospettiva «umanitaria» della guerra.

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