Crudele romanzo di formazione, «La terra dell’abbastanza»
Cinema In sala da domani il folgorante esordio di Damiano e Fabio D’Innocenzo, ambientato nelle periferie romane
Cinema In sala da domani il folgorante esordio di Damiano e Fabio D’Innocenzo, ambientato nelle periferie romane
Commuove e stupisce La terra dell’abbastanza esordio dei fratelli D’Innocenzo, scoperto al festival di Berlino e in sala da domani. All’interno di un’ambientazione che il pubblico conosce bene, quello della periferia romana dove la criminalità si esibisce nelle forme più diverse traendo ispirazione dalla cronaca nera alle esperienze personali, da Caligari all’ultimo Garrone risalendo nel tempo a Pasolini, questa landa desolata che visitiamo ti spiazza. Non si tratta di analisi sociologica, né di sguardo populistico dall’alto dei quartieri bene, né mette in mostra fenomeni da baraccone anzi restringe lo sguardo sui due protagonisti, li fa come abbracciare dalla macchina da presa (Paolo Carnera è il direttore della fotografia), ragazzi alle soglie della vita piena di promesse e incognite che prenderanno una svolta decisiva a meno di dieci minuti dall’inizio del film.
Manolo (Andrea Carpenzano) e Mirko (Matteo Olivetti) studenti dell’alberghiero stretti nell’abitacolo di un’auto si raccontano progetti che si presentano con una cascata di vitalità, euforia e gioia di vivere come se la vita precipitasse su di loro, da addentare a grandi morsi. Mirko dal profilo di falco predatore, Manolo dallo sguardo stupefatto sul suo futuro, il bruno e il biondo, i due amici per la pelle, il linguaggio come un canto, una danza della primavera interrotta da un incidente.
La cinepresa non molla la presa sulle emozioni, rari i campi lunghi sulle ambientazioni, quasi lande desolate come crateri dopo eruzioni, strette nelle cucine, unico luogo di scambio di rari affetti familiari.
Gli adulti esprimono altrettanta tensione emotiva, rappresentano la vera scuola di vita, non più il cuoco che avvierà alla carriera di chef o il ristoratore a quella di cameriere, né l’ambito training da barman, ma il boss che in poche e secche indicazioni insegna a caricare e scaricare la pistola, come dileguarsi dopo l’azione, come comportarsi se attaccati («la cosa migliore è la media distanza»). In poche mosse didattiche si dipingono le azioni della «svolta», uno swing da film americano senza ricami.
Milena Mancini è madre eterea o mater dolorosa, mentre Max Tortora e Luca Zingaretti si ergono con rara capacità di astrazione a impersonare ruoli «paterni» di riferimento per la loro indiscutibile sicurezza, a far risaltare ancora di più le fragilità, il dibattersi nei sentimenti di uno dei due giovani protagonisti, mentre l’altro, più smaliziato, sembra consapevole da tempo del mondo del crimine come tradizione familiare.
Eccezionale abilità del film è riuscire a mantenere un perfetto equilibrio tra i due giovani («Cip e Ciop» li chiama non a caso il boss) e gli adulti, tra l’infanzia e l’età adulta arrivata all’improvviso, tra l’intreccio criminale e l’umanità in trasformazione, crudele racconto di formazione, dove ogni momento scava nel profondo senza mollare la presa. Con un finale perfetto a sottolineare l’humour che scorre sottile a cominciare dal titolo.
Opera prima notevolissima di Fabio e Damiano D’Innocenzo, i due giovani registi gemelli candidati ai Nastri d’argento per l’esordio, che si sono fatti le ossa lontano dai luoghi canonici, ma a Los Angeles o sui campetti di calcio – uno in attacco l’altro in difesa – e hanno fatto uno dei loro primi esordi come illustratori proprio sulle pagine di «Alias», quando avevano sfolgoranti dodici anni.
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