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Cross, il sognatore dalla disciplina prismatica

Cross, il sognatore dalla disciplina prismaticaHenri-Edmond Cross, "La Mer clapotante", circa 1902-’05, Svizzera, collezione privata

Riscoperte nell'arte: Henri-Edmond Cross Anello di congiunzione fra Seurat e Matisse... Il recente catalogo ragionato dei dipinti di Henri-Edmond Cross, a cura di Patrick Offenstadt, introduce a un’arte della volontà, contro la dispersione fantastica e la malattia...

Pubblicato circa 17 ore faEdizione del 3 novembre 2024

«Cross fu, allo stesso tempo, un teorico freddo e metodico, e un sognatore strano e torbido». Oggi il giudizio di John Rewald, che tanto amava il pittore alto-francese, si può mettere a verifica con uno strumento in più, il catalogo ragionato dei dipinti, steso lungo oltre vent’anni da Patrick Offenstadt e pubblicato di recente dalla Galerie che porta il suo nome: cento numeri in più rispetto alla storica monografia-catalogo di Isabelle Compin, uscita nel 1964.
Articolato per generi e scandito cronologicamente all’interno di ciascun genere, il lavoro di Offenstadt, già estensore del raisonné di Albert Dubois-Pillet – un altro neoimpressionista della prima ora, fra gli intimi di Seurat –, si limita, esclusi gli apparati (Bibliografia, Cronologia, Esposizioni), alla nuda presentazione di ciascun pezzo, con tutte le notizie disponibili; l’edizione online comporta l’aggiornamento costante.

Nato a Douai nel 1856, vero nome Delacroix. L’adesione di Henri-Edmond Cross alla pittura prismatica di Seurat non fu immediata come per Signac, Pissarro padre e figlio, Dubois-Pillet, Cavallo-Peduzzi, poi Hayet, Angrand, Luce. Egli, pur partecipe delle circostanze in cui maturava il nuovo gruppo e tra i fondatori, nel 1884, della Société des artistes indépendants che gli diede figura pubblica, non partecipò, stilisticamente, all’epoca eroica 1886-’91, conclusasi con la morte di Seurat. Solo dopo lo stacco lacerante superò la fase impressionista, accolse integralmente il contrasto simultaneo, l’impiego dei colori puri, la mescolanza ottica: aveva 35 anni. Dal 1891 al 1895 realizzò, scrive Offenstadt, «una trentina di gioielli del neoimpressionismo», fra cui – appartenuto a Felix Fénéon, il laconico critico fiancheggiatore – quel sogno in puntini, tendente all’astrazione, Les Îles d’Or.

Avvertito dei rischi cui lo esponeva la sua acuta sensibilità, Cross trovò nella disciplina sistematica della ‘divisione’ il congeniale: «Le mie sensazioni, per la qualità del mio temperamento, richiedono la grammatica, la retorica e la logica». Ma, pur nello zelo con cui adotta il nuovo metodo, puntinando nel modo più serrato, egli vi immette una luminosità smorzata che è tutta sua: con le parole di Isabelle Compin, «avendo osservato che il sole assorbe i colori, (…) cerca di esprimere la verità luminosa decolorizzando; agli effetti violenti, preferisce una modulazione che parte da una gamma assai semplice di rosa, blu spento, verde tenero e giallo sabbia», il tutto intervallato da piccoli tocchi bianchi.

Vuol dire che il Midi, dove si era trasferito nell’anno fatidico 1891, anche per lenire la grave sindrome reumatica che lo porterà a morte nel 1910, a 54 anni, gli appare, almeno inizialmente, velato e quasi lattiginoso. Nel ritiro di Saint-Clair, frazione isolata fra il mare di Provenza e le ultime pendici delle Alpi, le sue «pupille di un blu di fiore», come le vedeva la petite dame Maria van Rysselberghe, filtrano delicatamente le impressioni cromatiche, non se ne lasciano invadere.
«Noi usciamo dalla dura e utile stagione dell’analisi in cui tutti i nostri studî si assomigliavano per entrare in quella della creazione personale e differenziata»: così Paul Signac in una pagina del Journal l’1 settembre 1895, subito dopo aver visto due recenti tele di Cross, fra cui una, Voile rouge, giudica «un tentativo, perfettamente riuscito, di colorazione portata all’estremo…». Sappiamo da diverse testimonianze che dopo la morte di Seurat i sodali, anche condizionati dagli automatismi della ricezione pubblica, non certo tarata sulle sottili individuazioni di Fénéon, avevano cominciato a interrogarsi su come rendere esclusiva la propria poetica, sottraendola all’idea perniciosa secondo cui il procedimento scientifico doveva per forza condurre a una specie di clonazione. Vili imitatori di Seurat? «La teoria deve essere la stessa per tutti – aveva scritto Louis Hayet a Lucien Pissarro già nel luglio 1888 – (…) ma in cambio ciascuno deve applicarla differentemente, pena diventare degli ibridi».

Come si distingue Cross? A partire dalla metà degli anni novanta l’accento non è più sulla luce ma sul colore, che egli studia di saturare al massimo in ciascuna componente accettando il rischio di smarrire l’armonia, di ‘sbilanciare’, ciò che può essere accaduto in alcune opere meno felici, dove certe parti risultano troppo sgargianti. «Quanto al paesaggio giallo, esso mostra i pini nel sole calante. È biondo. Tutto il giallo cadmio fuori. Vorrei spargere gli ori a profusione», scrive a Maximilien Luce nell’estate 1897 a proposito del Paysage provençal oggi a Colonia. Lui installato a Saint-Clair, Signac a Saint-Tropez, Van Rysselberghe spesso in visita, conducono insieme il processo di rinnovamento. Signac, teorico militante, incoraggia. Abbandonano il pointillisme.

In Cross, specialmente, «i punti si “mosaicizzano” e si geometrizzano» (Offenstadt), e viene a piena maturazione il profilo decorativo del neoimpressionismo, infiltrato ab origine dal gusto dell’arabesco di radice simbolista, che in un capolavoro come La Mer clapotante (circa 1902-’05) diventerà il vero e proprio soggetto del quadro, i tocchi delle onde arricciati e imbricati. Anche in questo senso non manca qualche squilibrio, soprattutto là dove interviene il nudo femminile – cui Cross si applica soprattutto a partire dai primi anni del Novecento –, magnificato in una soave elasticità lineare ma a volte poco fuso alla natura circostante, e come bloccato alla Puvis de Chavannes.

In ogni caso, secondo le parole della Compin, Cross «si incammina verso l’arte di sintesi e d’immaginazione che trionferà nei suoi ultimi anni». Non è più questione di tecnica, di controllo disciplinare attraverso la divisione, che garantisce la tenuta dei dati di realtà; la divisione è adesso avvio per un’idea interiorizzata, fantastica, dissociata della tavolozza. Chez Signac nell’estate 1904, Matisse ne sarà colpito, eleggerà gli esperimenti di Cross a base della sua svolta fauve. Il tocco di colore puro è meno inteso secondo logica costruttiva, si fa espressione. Il neoimpressionismo, tra Saint-Tropez e Saint-Clair, si mescola così alla giovane generazione, passa il testimone: «c’è stata nella primavera del 1905 una piccola e ardita colonia che dipingeva e divideva in questo paese incantato: Signac, Cross, Manguin, Camoin, Marquet…» (Louis Vauxcelles).

Dal catalogo di Offenstadt il trascorrere dello stile di Cross verso l’autonomia del colore, opera dopo opera, risulta eloquente. Un’integrazione importante sarà il raisonné degli acquarelli, di prossima uscita per la firma dello stesso studioso, che, già allievo di Bernard Dorival, ha ricordato come questi – ammiratore di Cross; istigatore della tesi, poi divenuta libro, di Isabelle Compin – attribuisse un ruolo cruciale a quel pezzo della sua produzione, vantandone la «vibrazione del colore», la «palpitazione della linea», il «largo respiro ritmato delle forme».

Gli acquarelli di Cross! Una parte, schizzi preparatorî; un’altra, momenti di riposo, sognanti distrazioni… la scioltezza dei contrasti simultanei, la luminosità del bianco risparmiato, i vermicelli di colore puro che si giustappongono, si incastrano, si rincorrono verso qualcosa di simile all’astrazione… Dove l’acqua ‘aiuta’ un abbozzo a matita, può bastare una sola tinta, un giallo, un blu, che il tempo ha magari scolorito…

All’acquarello Cross affidò i ricordi del suo soggiorno veneziano, estate 1903, che si era concesso dopo un doloroso trattamento terapeutico. Forse nessun artista moderno ha inteso altrettanto bene la natura onirica della liquidità lagunare. Le opere su tela, realizzate al ritorno, a Saint-Clair, a partire dalle note di viaggio (acquarelli, disegni), implicano un parziale recupero dell’ortodossia puntinista: sembra di guardare attraverso un cristallo appannato – seguono a gara, un anno dopo, e poi nel 1908, le ‘Venezie’ di Signac.

Il progredire della ricerca trova nutrimento nel viaggio in Umbria e Toscana dell’estate 1908. Cross è estasiato dai «campanili rosa» di Perugia, «drizzati su cieli temporaleschi» (Compin). La scoperta dei primitivi italiani, Cimabue in testa, non solo lo incoraggia a un estremo di sintesi e solennità, ma anche lo conferma nell’idea dell’arte come sacrificio morale, idea che fin dagli esordî lo aveva tormentato, spronandolo alla volontà di dare forma, di mettere un argine all’irrequieto fantasticare. Così come si oppose alla devastante malattia, il suo eroismo «una fiamma non brusca, subitanea, fremente, piuttosto fuoco continuo e profondo che si dissimula e che brucia fino alla pietra ipogea del focolaio» (Émile Verhaeren).

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