Cronaca visionaria di una città brutalizzata: il viaggio di Iain Sinclair
Psicogeografi Nel ventre dell'ultima Londra
Psicogeografi Nel ventre dell'ultima Londra
L’impresa dello psicogeografo inglese Iain Sinclair, duramente provato dalla fatica di esplorare a piedi il brutale paesaggio urbano attorno alla M25 – il raccordo anulare che circonda Londra come un cappio soffocante, dieci corsie, duecento chilometri – era stata già rapsodicamente raccontata da Peter Ackroyd (famoso biografo di gente illustre) con impulsive digressioni, scorci, ripensamenti imprevisti in London Orbital (del 2002), dove la città veniva rappresentata come un essere vivente, provvisto della audacia e dello slancio di un giovane, le voglie e gli acciacchi di un vecchio, la sua umanità sempre vigile.
Continuando questa epopea urbana, oggi Iain Sinclair – già noto come romanziere, poeta e cronista urbano – è tornato a misurare a piedi la planimetria della nuova Londra, deturpata da tanti «non luoghi» e «fuori luogo», squallide escrescenze architettoniche, svuotata da familiari luoghi della memoria. Con amore e odio – specialmente per lo Shard di Renzo Piano, «il chiodo» – ha vagato tra ospedali, tunnel, piscine, capannoni smantellati, tra incontri reali o immaginari, sempre caustico e pietoso, acido e indulgente, ansioso per un futuro imprevedibile.
Ne è derivato L’ultima Londra Romanzo autentico di una città irreale (traduzione di Luca Fusari, il Saggiatore, pp. 370, € 32,00) cronaca visionaria di scorci multiculturali, di schizzati profili di amici, scrittori e registi (Stephen Watts, Patrick Wright, W. G. Sebald, Will Self), di mutamenti, sovrapposizioni, distruzioni improvvise, che si incalzano con il ritmo convulso di una antica città colpita dalla dismisura del globalismo, dalla bruttezza della dilagante architettura di mercato, offesa dalle irreparabili disuguaglianze. Il mendicante accasciato sulla panchina è un Buddha, inquietante, «privo di meccanismi di fuga o scale di linguaggio»; ovunque si incontrano spettrali sovrapposizione di scene quotidiane: «… a Madrid c’era lo stesso sacco a pelo davanti allo stesso McDonald. E giuro che ci dormiva lo stesso uomo».
«Madre Londra» – così l’ha chiamata Michael Moorcok nel romanzo eponimo – ha forgiato col tempo la lingua inglese nella sua prodigiosa varietà, ha accolto e governato violente ondate di modernità, mantenendo la cura del quotidiano e la generosa accoglienza. I camminatori-scrittori, sospetti di comunismo e anarchismo, amano di amore filiale questa Londra sospesa sull’orlo di una drammatica involuzione. «Londonostalgia» è l’ironico appellativo che vorrebbe umiliare l’emozione suscitata dalla loro denuncia.
Come ogni colto camminatore, Sinclair sa di avere nobili antenati: gli inglesi Blake, Bunyan, Defoe, il mistico Thoreau, l’elegante flâneur di Benjamin, che percorreva strade in discesa verso un passato che pur non essendo il suo, era pur sempre «il tempo di un’infanzia», scopriva una sua Parigi, conosceva una propria geografia.
Diverso il severo proposito dei Situazionisti francesi degli anni Cinquanta, e del loro teorico Guy Debord (vedi Balestrini, Moroni, Perniola, Luther Blisset). In comune hanno una idea di geografia come strumento cognitivo per sperimentare un modo rivoluzionario di attraversare la città, viaggiare dal presente al futuro, dalla fruizione estetica tradizionale a una diversa prospettiva, ancora in formazione. Ma gli psicogeografi inglesi sono mossi, per di più, da una certa englishness che colora il loro romantico rapporto con Londra: onestà, accuratezza, responsabilità per quella che è considerata poco meno di una missione culturale. Camminatori-sognatori che potrebbero avere anche altro e più imponente seguito.
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