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Crisi e artifici dell’ingegneria delle costruzioni

Il progetto Le strategie del marketing sono molteplici come per Morandi lo erano i sistemi di calcolo, ma Genova ha bisogno di regole e di buona ingegneria e non di spot pubblicitari

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 8 settembre 2018

Vista l’infinita catena delle responsabilità molto si è scritto e si continuerà a dire intorno alla tragedia del ponte sul Polcevera. A fianco, però, dello scontro in atto tra pubblico e privato, politici e concessionari, non è trascurabile l’aspetto culturale della vicenda che va dalla difesa acritica del ponte di Riccardo Morandi al nuovo ideato da Renzo Piano. A leggere gli interventi che si sono succeduti, è evidente che la discussione si è ispessita di una fastidiosa cappa di retorica e ipocrisia. Le univoche ragioni della Storia e del Progetto sono state esibite con toni così assiomatici che bene rappresentano una delle forme con le quali si manifesta la nostra fase di declino. Iniziamo dalle ricostruzioni, sempre sommarie, che riguardano l’ingegneria del ponte e l’attività di Morandi. Occorre ricordare che più di un decennio fa, sulla scia di quanto si andava svolgendo presso istituzioni culturali e accademiche straniere, anche da noi s’iniziò a studiare la storia dell’ingegneria delle costruzioni.

Nuovi orizzonti si aprivano agli storici interessati a raccontare quel “policentrismo creativo” rappresentato non solo dalle coperture di ampie luci in ferrocemento di Pier Luigi Nervi, ma in particolare i ponti in precompresso di Silvano Zorzi, Sergio Musmeci, Carlo Cestelli Guidi e naturalmente Morandi. Il risveglio intorno alle opere di questi ingegneri, vanto dell’industria delle costruzioni degli anni del boom economico, si è orientato a magnificarne la bellezza, l’ardita perizia di esecuzione, l’impegno imprenditoriale profuso da imprese in corsa per diventare – senza mai riuscirci – industria. A quest’appassionato indirizzo di rivalutazione storiografica gli fu estraneo il confronto con altre discipline che avrebbero consentito di meglio comprendere il significato oltre che dell’opera in sé, del sistema, politico ed economico, nel quale questa s’inseriva. Non che sia mancato del tutto il contributo di chi, come ad esempio Tullia Iori, seppe esplorare, accanto al «patrimonio di capolavori accumulati negli anni della ricostruzione», anche i nostri «primati negativi»: dalla frana del Monte Toc nella diga del Vajont al crollo della tensostruttura del Palazzo dello Sport di Milano. In più, si conobbero i limiti del criterio sperimentale, ossia per nulla matematico, adottato dell’ingegneria del “miracolo italiano” da parte di “capiscuola” come Gustavo Colonnetti e Arturo Danusso. D’altronde scrisse Morandi il calcolo «deve rappresentare solo una base per il costruttore», perché gli «ausili tecnici», come gli anticipò Luigi Piccinato, «non possono essere che uno strumento al pari di altri». È grazie all’attenzione posta da alcuni storici che abbiamo appreso quanto fossero imprecisi i loro calcoli e quanto generiche le considerazioni sul comportamento dei materiali (ferro e cemento).

La questione della manutenzione, causa delle tragedie seriali alle quali abbiamo assistito, è qualcosa che viene temporalmente dopo, semmai è indice di arretratezza il fatto che l’ingegneria civile è sempre stata estranea al concetto di revamping, ossia la sostituzione integrale d’intere parti non più adatte, prerogativa esclusiva invece della meccanica. Tuttavia la dossologia ha prevalso sulla filologia e il racconto letterario dell’ingegneria delle costruzioni si è espanso a favore di curricula, editori e cartelloni di festival per far giungere fino ad oggi per lo più la fascinazione delle “grandi opere”. Alla Triennale di Milano, nel 2012, una mostra ebbe l’ambizione di compiere una ricognizione sulle costruzioni degli ingegneri nel mondo, ma indirizzata a fornire giudizi di valore estetici è stata l’ennesima conferma di quello sguardo miope con il quale ci si è avvicinati, subendone la seduzione, all’ingegneria. In una cacofonia di progetti che qui è impossibile elencare si valutò ogni infrastruttura, del passato e del presente, per la sua configurazione architettonica e rilevanza ambientale, prescindendo dagli aspetti di efficienza e di risultato com’è obbligo considerare qualsiasi manufatto industriale.

Questo episodio, come gli altri, non è esagerato ricondurlo al più generale disimpegno storico-critico che già Zevi denunciava quale causa dell’«evasione formalistica» della quale è vittima la nostra cultura architettonica; una tesi che Morandi sposava estendendola all’ingegneria civile. È della stessa cifra l’atteggiamento di chi, nei giorni successivi alla tragedia del crollo, ha continuato a vedere il ponte come un’“opera d’arte” da tenere in piedi a prescindere dalle sue condizioni statiche, ma soprattutto dalla sua ubicazione sovrastante quei blocchi di condomini dai quali ancora proviene lo strazio umano che non si sa come guarire. È spiacevole costatare che la soluzione proposta da Renzo Piano per il ponte fa parte anch’essa di questa generale involuzione culturale nonostante circa quindici anni fa il suo contributo d’idee che la città di Genova fosse di altra qualità com’è stato per il masterplan del waterfront, arenatosi senza dispiaceri tra le pastoie politiche di Comune e Autorità Portuale. Il suo ponte sembra provenire da chi ha perso il coraggio per le sfide importanti, e abdicato al laissez faire corrente. Con la sua struttura a trilite composta da una teoria di piloni a sorreggere l’impalcato stradale, Piano sembra far parte di coloro che Morandi combatté con vis polemica perché sostenitori del «ritorno polemico a superate tendenze».

Suona allora profetico il finale di quel suo scritto sui rischi che porta con sé la «negazione dei valori strutturali, confinati nel piano puramente statico». Ai “valori strutturali” la migliore ingegneria italiana restò sempre fedele. Per Morandi aderirvi significò conquistare la leggerezza grazie alla sintesi tra tecniche della precompressione, innovativi sistemi strutturali, ingegnose macchine di cantiere. Sappiamo che Piano conosce il ponte a Millau sul fiume Tarn di Norman Foster, quello di Mario Petrangeli sul Po, e tanti altri ponti strallati come lo era quello di Morandi. Allora ci domandiamo: perché ha scelto di rinunciare a questa soluzione per concepirne un’altra che appare evidente rifiuta l’uso dei tiranti e la tecnologia in questo momento più avanzata nel settore dei ponti e ancora la più adeguata per il contesto genovese? Le strategie del marketing sono molteplici come per Morandi lo erano i sistemi di calcolo, ma Genova ha bisogno di regole e di buona ingegneria e non di spot pubblicitari.

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