Crippa, gioia di ghirigori e altri argomenti
A Milano, Casa Museo Boschi Di Stefano, "Roberto Crippa nella Collezione Boschi Di Stefano", a cura di Chiara Fabi e Roberta Sara Gnagnetti La mostra antologica "dalla" raccolta dei coniugi milanesi dà modo di ripensare l’opera nella sua complessità, fuori dalla vulgata spazialista
A Milano, Casa Museo Boschi Di Stefano, "Roberto Crippa nella Collezione Boschi Di Stefano", a cura di Chiara Fabi e Roberta Sara Gnagnetti La mostra antologica "dalla" raccolta dei coniugi milanesi dà modo di ripensare l’opera nella sua complessità, fuori dalla vulgata spazialista
Fra i molti quadri di Roberto Crippa (1921-’72) acquistati da Antonio Boschi e Marieda Di Stefano, ve ne sono due del 1955: raffigurano due tori di profilo, con un occhio trasformato in un bersaglio e le zampe a stecco, ricoperti da una aggrovigliata matassa di segni neri su una superficie in parte ricoperta a cera. Sono un evidente calco picassiano, effetto probabilmente della grande mostra milanese del 1953, ma non li si deve intendere come un cimento giovanile.
A quella data, infatti, Crippa aveva trentaquattro anni e da quando ne aveva trenta faceva parte del gruppo di artisti Spazialisti che Carlo Cardazzo, della milanese Galleria del Naviglio, aveva costruito intorno al mito di Lucio Fontana. E per quella via le sue famose «spirali», orbite concentriche di pianeti immaginari, erano entrate in molte collezioni importanti, facendo la fortuna dell’artista e del suo gallerista. Fra questi, ovviamente, non potevano mancare i coniugi Boschi Di Stefano, come racconta la mostra «Ha guardato in su, verso il cielo» Roberto Crippa nella Collezione Boschi Di Stefano, curata da Chiara Fabi e Roberta Sara Gnagnetti e visitabile fino all’11 settembre presso la casa museo milanese dei due collezionisti.
Crippa è stato forse l’artista di cui acquistarono più opere, insieme ad altri giovani e meno giovani che costituivano la costellazione dell’Informale a Milano: moltissimi Crippa, dunque, altrettanti quadri di Gianni Dova e Cesare Peverelli, non poche tele di Enrico Baj e Sergio Dangelo, che prendevano il posto occupato dalla generazione di «Corrente». È questo, infatti, il tracciato delineato dal ciclo «Visti da vicino», ideato da Maria Fratelli, che ha svolto un compito di impegno civico raro oggi nei musei di arte contemporanea: restituire al pubblico attraverso mostre-dossier, e altrettanti cataloghi editi da Skira, quanto conservato nei depositi, facendone occasione di approfondimento sulle ricerche a Milano nel dopoguerra, dai giovani Nucleari e Spaziali a varie presenze sparse (da Alfredo Chighine a Mario Bionda e Valentino Vago, per ricordare alcune delle mostre più recenti).
Per questo è un’occasione rara poter apprezzare in un percorso unitario alcuni dei capolavori del milanese Crippa, e tramite questi comprendere la complessità di un percorso che non si può appiattire sulla poetica spazialista più volte ripetuta dalla critica dell’epoca. «Della giovinezza», scriveva Giampiero Giani presentando nel 1956 la sua prima mostra alla galleria Selecta di Roma, «Crippa ha tutti i numeri: il portamento, l’invenzione, l’improvvisazione e la fantasticheria, il buon cuore che non è escluso dall’animo allegro. (…) Ha il gusto di tutto ciò che vibra, si muove, respira; si è scelta un’esistenza che anima di raffiche luminose». Eppure questo profilo solare e ottimista, che molto contribuirà alla costruzione del mito dell’artista, non lascerebbe spazio a sbavature, quando invece anche il percorso di Crippa è tutt’altro che lineare: i due tori citati all’inizio erano stati dipinti appena un anno prima delle riflessioni di Giani, e non avrebbero mai potuto trovare posto nel Museo dello Spazialismo che il critico proprio allora stava allestendo nella sua Villa di Orte San Giulio. Quei due dipinti, anzi, stavano a indicare l’esigenza da parte dell’artista di uscire dalla sperimentazione post-pollockiana che gli aveva dato fortuna, ma che rischiava di ridursi a un manierismo. Al contempo, quei dipinti erano un segnale della vena ironica, mai rilevata dalla critica, che animava il suo immaginario pittorico.
Le spirali originate da colature o da sontuose spremiture di tubetto (le stesse di Chighine e Peverelli, ma con intenzioni diverse) erano il groviglio primordiale della sua ricerca, ma erano necessari nuovi contenuti, seppur magari elementari, per innervare quel discorso. Ecco allora che dopo i pianeti e le visioni postatomiche dei primi anni cinquanta le spirali si allargano, e da un intreccio più semplice nasce una schiera di «Ominidi» dagli occhi a spillo che avanzano da un fondo incandescente o notturno: se Baj stava pensando a una popolazione di «generali», quelli di Crippa sono i comici e spaventati guerrieri che abitano una terra diventata inospitale, o i totem di una tribù primitiva tutta inventata. L’Africa, in fondo, non era estranea all’immaginario del pittore: nello stesso torno di anni, fra 1956 e 1958, aveva pensato una serie di dipinti con elefanti, che somigliano però più a balocchi che a veri animali esotici.
Quel vitalismo prensile a cui facevano riferimento i critici, del resto, non poteva accompagnarsi a un autentico impegno esistenziale. Eppure non sarebbe mancata una stagione più raccolta e drammatica: parallelamente ai suoi ominidi e ai suoi totem, infatti, Crippa decide di dar vita a una serie di collages di frammenti di sughero su tela. Il passaggio di Burri da Milano, per un istante anche lui «spazialista» nelle intenzioni di Cardazzo, doveva aver sortito un effetto dirompente, insegnando una grammatica più serrata e solenne. Per paradosso, proprio con i «sugheri», le soluzioni meno «spazialiste» della sua carriera, realizzerà nel 1960 un’opera a quattro mani con Fontana.
Il nuovo mondo, dal colore bruciato, non ha più nulla del frizzante ghirigoro degli anni precedenti; e per la prima volta, dopo anni di composizioni paratattiche tutte giocate sul piano della tela, nella pittura di Crippa compare, plumbeo e desolato, un possibile paesaggio.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento