Crimini, tra fiction e realtà
Scaffale Antonio Paolacci e Paola Ronco, coppia di apprezzati giallisti di stanza a Genova, creatori della serie del commissario Paolo Nigra e adesso in libreria con il saggio «Tu uccidi», per effequ
Scaffale Antonio Paolacci e Paola Ronco, coppia di apprezzati giallisti di stanza a Genova, creatori della serie del commissario Paolo Nigra e adesso in libreria con il saggio «Tu uccidi», per effequ
Raymond Chandler ce l’ha insegnato: quella del delitto è un’arte tutto sommato semplice. Certo, poi quando si tratta di raccontarlo, il delitto, l’affare si fa molto più complicato. Lo sanno bene Antonio Paolacci e Paola Ronco, coppia di apprezzati giallisti di stanza a Genova, creatori della serie del commissario Paolo Nigra e adesso in libreria con il saggio Tu uccidi. Come ci raccontiamo il crimine (Effequ, pp. 287, euro 18). Qui, prendendo in esame alcuni casi di cronaca nerissima provano a rispondere a una domanda di non poco conto: in quale modo la nostra società percepisce e racconta il crimine? Qualche idea in merito sarebbe possibile farsela osservando i risultati delle elezioni da un po’ di tempo a questa parte, e di sicuro la paura è un sentimento che soprattutto le forze politiche reazionarie riescono a trasformare in voti con straordinaria facilità, ma non basta.
A METTERE IN FILA i fatti, come fanno Paolacci e Ronco, ci rendiamo conto che esistono distanze incolmabili tra la realtà e la finzione all’interno delle quali viviamo ogni giorno sforzandoci di restare inseriti nel dibattito civile. E così gli autori illustrano, dati alla mano, come il numero di delitti in Italia sia in calo da decenni per poi evidenziare che, però, alcuni casi finiscono per avere un’eco mediatica abnorme, capace di andare molto al di là dell’orrore proprio di un omicidio più o meno efferato. Questione di immaginario, forse, del resto Dostoevskij non aveva bisogno di mostrare coltelli insanguinati per raccontare la violenza, mentre oggi la crime fiction vive (anche) di suggestioni da Grand Guignol.
È un riflesso della realtà sulla narrativa o è la narrativa che rompe gli argini e plasma la realtà? La rassegna di commenti e prese di posizione televisive e politiche sulle quali Paolacci e Ronco appoggiano una parte consistente della loro analisi spingerebbe a dire che la realtà conta molto meno di come viene raccontata. C’è anche altro: quando all’inizio degli anni ’90 David Lynch firmava Twin Peaks, certo non pensava di aver regalato al mondo un libretto delle istruzioni. Le «dead girls» di Alice Bolin escono dalla sociologia e si fanno materiale buono per Sorrisi e Canzoni, con orde di ragazzini che leggono e si appassionano al Diario segreto di Laura Palmer.
È COSÌ CHE SI SCENDE fino agli omicidi razziali che si accoppiano alla paura di uscire di casa (e al mito delle chiavi che non si possono più lasciare sulla porta) e all’eterna caccia al colpevole. Una pratica che non serve più – o non serve tanto – a fare giustizia, ma a fornire una via d’uscita da un mondo sempre meno delittuoso ma, all’apparenza, sempre più efferato. C’è speranza? Gli autori qui citano Alessandro Leogrande e le sue riflessioni su Caravaggio, che dipinge l’orrore ma si ritrae sempre dentro la tela, non fuori con il pennello in mano. Bisogna coinvolgersi per riuscire a trovare prospettive diverse. Come Matthew McConaughey nella prima stagione di True Detective, che passa otto puntate a mostrare il suo pessimismo ontologico ma alla fine, dopo essere andato a tanto così dal morire squartato, guarda il cielo di notte e sostiene che in fondo non sia poi così oscuro.
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