Creato da Paul Rutman (The Virgin Queen, Five Days, Vera) e attualmente visibile su Apple TV+ (siamo giunti alla sesta di otto puntate rilasciate ogni mercoledì), Criminal Record è un thriller che racconta il nostro contemporaneo in modo rigoroso e avvincente, combinando le cosiddette regole del poliziesco con una profonda attenzione alla realtà sociale e alle dinamiche che minano (o favoriscono) le relazioni tra individui. Ambientata a Londra, la miniserie potrebbe in realtà riferirsi a tutte quelle città dove dominano le ingiustizie, le discriminazioni razziali e le violenze di genere.

E NON SOLO. Perché sin dal primo episodio, attraverso i protagonisti di una vicenda intricata, la storia racconta di due generazioni, di due stati d’animo diversi e ugualmente complessi. Di solitudini e di incomprensioni, di momenti nei quali guardarsi indietro o avanti provoca allo stesso modo una vertigine. Con l’effetto di virare, dunque, su temi più esistenziali che prescindono dal ruolo e dal contesto nel quale operano gli attori di questo dramma.

DA UN LATO, la detective June Lenker (Cush Jumbo, The Good Wife, The Good Fight), giovane e irruente, decisa a riaprire un caso dopo aver ascoltato la telefonata anonima di una donna che, oltre ad affermare di essere in grave pericolo, denuncia il proprio fidanzato di un vecchio omicidio per il quale è stato condannato un innocente. Dall’altra parte della barricata, si pone Daniel Hegarty (Peter Capaldi, Torchwood, The Hour, Doctor Who) poliziotto a fine carriera (fa anche l’autista per clienti «speciali» intrattenendoli con macabri aneddoti), responsabile di quella probabile ingiusta condanna, pronto a difendere il suo operato a costo di danneggiare il prossimo.

Se June rischia di essere emarginata per aver messo in discussione il lavoro di colleghi anziani ed è costretta a far valere i propri diritti e ideali persino in famiglia, Daniel è obbligato ad affrontare i propri demoni, come se improvvisamente si trovasse davanti il fantasma di un passato che credeva evaporato.
Criminal Record, sulle orme di serie come Broadchurch, non narra situazioni ma traiettorie umane che, collidendo, portano a fortune e miserie. Vita e morte diventano, quindi, conseguenza di azioni e di scelte e non «personaggi» per tenere in piedi uno show che tra una puntata e l’altra finirebbe per offrire solo banali colpi di scena.